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Gender pay gap in Italia – Un approfondimento

8 March 2021 |  Clap
gender pay gap

Quali sono i fattori che determinano il gender pay gap nel nostro Paese? Quali le possibili soluzioni? Ne parla la nostra attivista Barbara Pettine in un ampio e dettagliato articolo di approfondimento, che abbiamo deciso di pubblicare subito dopo lo sciopero transfemminista dell’otto marzo per continuare il dibattito.

N.B.: In fondo al testo la versione scaricabile con le Tavole

Scarsa leggibilità dei dati

Il World Economic Forum dice con ogni evidenza che la partecipazione economica delle donne nel nostro Paese è a livelli del tutto insufficienti, collocandoci al 118° posto su 144 paesi, ultimi tra i paesi europei, eccezion fatta per Malta.
Secondo i dati offerti da Eurostat nel 2017 però, il gender pay gap – un indicatore che misura la differenza tra la paga oraria ricevuta da uomini e donne – in Italia è pari solo al 5,5%, ben al di sotto della media europea, che tocca invece il 16%.
Questo dato sembra essere in vistosa contraddizione con i valori ben più alti  raggiunti invece dall’overall earnings gap, ossia la differenza media tra gli stipendi annuali di uomini e donne, pari al 43,7% in Italia, contro una media europea del 39,6%.

Sebbene questi due indicatori misurino grandezze, fenomeni e platee non del tutto sovrapponibili (il primo sulla paga oraria, seppur aggregato, l’altro sul guadagno annuale complessivo, anch’esso aggregato), quello che risalta agli occhi è sicuramente un problema di scarsa leggibilità statistica dei differenziali retributivi di genere nel nostro paese.

Tant’è che i dati relativi all’Italia sono stati recentemente considerati inaffidabili da parte della University Women of Europe e dall’Ecsr. Il Comitato ha criticato la mancanza di trasparenza riguardo le informazioni disponibili su questo tema, che si limitano a quelle contenute nel quadro legislativo e mancano  dei necessari  chiarimenti, dati e statistiche che certifichino come e in che misura il nostro Paese stia rispettando le regole europee. La University Women of Europe, che ha presentato le critiche al Comitato, ha chiesto a fine 2019 all’Italia di fornire documenti precisi e dettagliati, che possano dimostrare l’effettivo rispetto della parità di trattamento tra uomini e donne sul luogo di lavoro.

Tuttavia non mancano studi scientifici ed empirici che ci permettono di fotografare meglio qual è lo stato del divario di genere in ambito economico nel nostro Paese e quanto di questo sia da ascrivere a vere e proprie discriminazioni dirette ed indirette, anche se mancano ancora studi su come la situazione si sia modificata nell’ultimo anno, a seguito dello “tzunami pandemico”. Cerchiamo di guardare un po’ più in profondità rispetto alle statistiche e a quello che nascondono i dati aggregati.

Da una recente analisi statistica condotta sul database di JobPricing, nel 77% dei casi gli uomini hanno retribuzioni superiori alle donne e questa situazione è estesa a tutti i settori professionali. Il gap retributivo è più alto fra laureati (anche superiore al 30%), confermando che il dislivello del reddito da lavoro tra uomini e donne è maggiore nelle professioni più qualificate e meglio retribuite e nelle aree del paese dove il reddito medio è più elevato (Lombardia e Veneto), che sono anche quelle in cui il tasso di attività femminile è più allineato con la media europea e duraturo nell’arco della vita lavorativa.
Guardando ai redditi complessivi guadagnati nel 2017 (Tavola 1) quelli delle donne sono in media del 25% inferiori a quelli degli uomini (15.373 euro rispetto a 20.453 euro); tale differenza nel corso degli ultimi dieci anni è diminuita solo di 3 punti in percentuale (nel 2008 era il 28%).
Il divario di genere è più basso per i redditi dei dipendenti, pari al 24%, mentre raggiunge il 30% nel caso di occupazione autonoma.
I divari sono più ampi nelle fasce di età over 45 (28,5% tra i 45 e i 54 anni e 26,1% per i percettori over 55), per le laureate, che guadagnano quasi un terzo in meno dei laureati (20.172 € contro 29.698 €) e nelle regioni del Nord (27,5% al Nord-ovest e 28,3% al Nord-est).

Quindi il tema delle discriminazioni retributive di genere non riguarda esclusivamente le fasce deboli e residuali dell’occupazione femminile, non è una “patologia” dei lavori meno qualificati, più precari e discontinui, bensì è cifra dell’intero sistema produttivo e professionale.

Si è soliti spiegare questo fenomeno con un insieme di fattori “ di sistema” quali:

  • La bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro (mentre la media europea è al 67% in Italia siamo di nuovo scesi al 49% a causa dell’imponente perdita di lavoro femminile durante i mesi della pandemia) con un divario di genere nei tassi di occupazione che rimane tra i più alti d’Europa (circa 18 punti su una media europea di 10).
  • La minore presenza delle donne nei comparti a più alta specializzazione scientifica e tecnologica (basso numero di laureate e specializzate in discipline cosiddette STEM) che offrono migliori opportunità professionali. Tuttavia un’indagine Istat sull’inserimento professionale dei laureati mostra come per le donne sia comunque più complesso trovare una collocazione sul mercato del lavoro adeguata al percorso di istruzione seguito. Infatti le laureate di primo livello, occupate a quattro anni dal conseguimento del titolo, svolgono una professione consona al loro livello di istruzione solo nel 67% dei casi, mentre per gli uomini si registra la coerenza tra titolo di studio e impiego in oltre il 79% dei casi. Il differenziale medio delle retribuzioni nette dei laureati nel 2017 è di oltre il 30%, con un valore quasi simile tra lavoro dipendente (32%) e quello autonomo (33%).
  • Il maggiore addensamento femminile, al contrario, nei settori più poveri e meno remunerativi e nelle aziende di minore dimensione (sotto le 10 unità): tra le donne – soprattutto nel commercio, nella ristorazione e nei servizi alle famiglie – la quota di dipendenti con bassa paga, ossia con una retribuzione oraria inferiore a 2/3 di quella mediana, è stata nel 2019 pari al 9,5%, contro il 5,8% degli uomini. La bassa paga riguarda quasi il 16% delle giovani fino a 34 anni e quasi il 17% di quelle con al massimo la licenza media inferiore.
  • La maggiore presenza femminile nel lavoro a tempo parziale, discontinuo e precario in tutte le sue forme: nella media dei primi tre trimestri del 2019 il 43,5% delle lavoratrici a tempo determinato ha un lavoro part time, sperimentando così una condizione di doppia vulnerabilità, soprattutto se si considera che nell’82,1% dei casi il part time è stato di tipo involontario.
  • Il minore orario di lavoro annuo prestato a parità di mansione, sia inteso come numero di settimane lavorate, che come minore disponibilità allo straordinario e al lavoro festivo, alle trasferte.
  • L’influenza del fattore “maternità” e lavoro di cura sulle vite professionali e le carriere femminili: un recente studio longitudinale, curato da Casarico e Lattanzio su dati Inps dal 1985 al 2016, stima che a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono mediamente di 5700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita, con una perdita di incrementi salariali di oltre il 20% sulla retribuzione mediana.

Tutti fenomeni che rappresentano ciascuno una parte del problema, descrivendo aspetti specifici dell’occupazione femminile nel nostro paese, quasi fossero “fenomeni tipici” del lavoro femminile, che va supportato e adattato per “inserirsi” in un mondo del lavoro le cui regole (formali e sostanziali) sono scritte e dettate da priorità altre, ovvero sul modello del male breadwinner. Risulta quindi evidente che per modificare un così ampio differenziale il tema sia quello del cambiamento di paradigma.
Sulla questione c’è una narrazione spesso superficiale e troppa falsa coscienza, molte parole e pochi fatti, programmi e interventi che non hanno modificato in profondità gli elementi di mercato e le strategie retributive e di sviluppo di carriera e professionali a livello di imprese.

Differenze fra settore pubblico e privato

Secondo i dati Istat, scorporando il gender pay gap tra settore pubblico e privato si scopre che nel pubblico il differenziale scende al 4,1%, mentre quello del privato sale al 20,6%. In nessun altro Paese europeo la distanza è così evidente e ciò spiega in buona parte la posizione dell’Italia nella classifica generale. Una donna lavoratrice nel settore privato, quindi, percepisce mediamente un quinto di stipendio in meno del suo collega uomo, a parità di mansione e di ore lavorate.

E’ evidente quindi che il gap salariale e il differenziale economico nel nostro paese riguardino prevalentemente il settore privato. Infatti nel lavoro pubblico il sistema assunzionale vincolato a concorso, le dinamiche di carriera collegate all’anzianità, l’orario di lavoro più ridotto, lo scarso ricorso allo straordinario, le dinamiche retributive governate prevalentemente dal sistema contrattuale (con scarsissimo ricorso alla premialità discrezionale), la maggiore trasparenza del sistema retributivo di fatto, una migliore e più ampia copertura economica della maternità, un accesso meno colpevolizzante ai congedi parentali e ai permessi della Legge 104/92, sono tutti fattori che hanno consentito nel tempo alle donne una maggiore partecipazione, anche se permane un gap riferito ai percorsi di carriera e alla crescita professionale.

Infatti il 63% del lavoro femminile nel nostro Paese è attualmente impiegato nel comparto pubblico, di cui rappresenta oltre il 57% dei dipendenti complessivi, (il 79% nel settore scuola, il 67% nel Sistema Sanitario Nazionale) contribuendo ad abbassare notevolmente la media del gender pay gap italiano nelle rilevazioni aggregate di Eurostat.
I nodi non sciolti della questione si trovano dunque in gran parte nel settore privato e in quello del lavoro autonomo e delle libere professioni, dove si riscontra una forte sperequazione salariale tra comparti (con bassissimi livelli retributivi in settori ad ampia presenza femminile), oltre al fatto che nelle aziende la competizione è più esasperata, la discrezionalità la fa da padrone, il fattore maternità – sia quella reale che quella “attesa”- diventa ostacolo o sospetto di scarsa affidabilità.

Si scrive discrezionalità, si legge discriminazione

Se in un settore ampio, articolato e diffuso in tutto il territorio nazionale come la Pubblica Amministrazione il gap salariale si attesta mediamente al 4%, che cosa impedisce al sistema privato di mettere in atto una strategia di correzione che porti a raggiungere nel giro di pochi anni, nel lavoro dipendente e autonomo, della stessa soglia?

Al di là delle generiche dichiarazioni di intenti dei governi, che si sono succeduti nel corso di decenni e che hanno solamente scalfito la diseguaglianza economica tra uomini e donne nel nostro Paese, sarebbe ora di dar vita a una concreta presa in carico da parte degli organi competenti e del sistema delle imprese della risoluzione del problema attraverso un programma a breve termine (3/5 anni massimo) di energico riallineamento alla soglia del 4%.

Il problema è stato posto nell’attuale legislatura da tutta una serie di proposte di legge, tra cui una interessante (prima firmataria l’On. Gribaudo) che si propone l’obiettivo di rafforzare gli strumenti di verifica sulla parità salariale, già previsti nel nostro ordinamento dall’art. 46 del decreto legislativo 198/2006 (già prima dalla Legge 125 del 1991), il cosiddetto “”Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.
In particolare si propone un rafforzamento dell’obbligo, per le imprese pubbliche e private con oltre 100 dipendenti, di presentare il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, estendendone la platea anche alle imprese di dimensione inferiore (ma rendendolo per queste facoltativo), di rendere pubblico e consultabile sul sito del Ministero del Lavoro l’elenco delle aziende che hanno presentato i loro risultati e di quelle inadempienti, di permettere la consultazione dei rapporti ai dipendenti di ogni impresa interessata, nonché le modalità di pubblicazione degli estremi del rapporto nel sito della stessa azienda; la definizione di parametri minimi di rispetto delle pari opportunità, la forma, le modalità di attribuzione e di pubblicazione di una certificazione di pari opportunità di lavoro, anche attraverso il rafforzamento di alcune modalità di controllo e di sanzione.

Tutti propositi che sicuramente convergono sull’obbiettivo di un miglioramento della leggibilità dei sistemi aziendali e della maggiore trasparenza dei dati aggregati a livello nazionale, così come richiesto all’Italia dall’ University Women of Europe e dall’Ecsr, ma che tuttavia poco riusciranno a modificare la realtà, in mancanza di obbiettivi vincolanti di riduzione dei differenziali in ogni ambito aziendale.

L’opacità delle politiche di selezione, assunzione, progressione di carriera, dei sistemi premiali e retributivi nel settore dell’impiego privato, sotto la gelosa e strenua difesa della “discrezionalità“ nella gestione del personale da parte delle imprese, celano vere e proprie voragini di sperequazioni di trattamento tra uomini e donne, segnalando l’esistenza di consolidate e inconfessate pratiche discriminatorie in base al sesso che né gli interventi legislativi, né quelli contrattuali, fino ad oggi, sono riusciti a modificare realmente.

Una recente elaborazione dei dati INPS effettuata dal sito “Lavoce.info”, riguardante un campione di aziende private, testimonia come col crescere delle dimensioni aziendali aumenti il differenziale retributivo di genere, passando dal 4.24% per le aziende al di sotto dei 15 dipendenti al 22,82% per quelle oltre i 500 dipendenti. Circa il 30% del differenziale retributivo globale di genere è spiegabile proprio con la gestione ineguale del personale nelle imprese private.

Al contrario si dovrebbero impostare dei veri e propri “audit di parità” a cura di un soggetto indipendente (una vera e propria Autorità per la parità di genere o antidiscriminatoria) con potere d’indirizzo e sanzionatorio. Questi audit periodici, partendo dalla fotografia della situazione attuale, dovrebbero dettare alle imprese le tappe di accorciamento del differenziale entro i tempi stabiliti, con interventi concreti e con input e output quantificati e misurabili. Veri e propri piani di riallineamento di parità, cui le aziende dovrebbero conformarsi come condizione per poter accedere ad ogni forma di finanziamento pubblico (ivi compresi i programmi del Recovery Plan) e, nei casi di eccellenza, aggiudicarsi una certificazione premiale.

I programmi su cui incentrare gli obiettivi di recupero dovrebbero essere:

  • Riequilibrio delle scelte assunzionali, ad esempio attraverso l’allargamento dell’area delle competenze scientifiche richieste, passando da titoli più tradizionalmente maschili, quali ingegneria e fisica, ad altri più trasversali, quali matematica, statistica, chimica e altri in cui sono maggiormente presenti anche le donne. Si potrebbero prevedere poi sistemi premiali per l’assunzione di donne con figli minori, che hanno abbandonato l’attività lavorativa a seguito della maternità, o ancora investire in accessi femminili nell’area gestionale e delle relazioni interne. Andrebbero istituite delle vere e proprie campagne di assunzioni femminili in attività e/o aree professionali in cui la presenza maschile è esclusiva, o comunque superiore al 66%.
  • Riequilibrio dei percorsi di carriera, attraverso programmi di attribuzione di qualifiche e livelli professionali per dipendenti che non hanno avuto avanzamenti e gratifiche professionali negli ultimi 5 anni (o comunque nel periodo mediano con cui avviene la progressione di carriera per i colleghi). Questo tema ha particolare pregnanza per tutte le categorie operaie dove, eccezion fatta per i primi anni in cui sono previsti passaggi automatici dai CCNL, poi sia uomini che donne passano l’intera vita lavorativa schiacciati al medesimo livello professionale (le donne, quasi sempre, ad un livello inferiore). Andrebbero poi sviluppati piani professionali con rotazione e arricchimento delle mansioni, con l’obiettivo di far crescere la qualificazione femminile allo stesso livello di quella maschile.
  • Trasparenza nei criteri di attribuzione dei superminimi individuali, dei premi e delle gratifiche con parametri oggettivi e verificabili, prevedendo piani di riequilibrio per tutti i soggetti che non hanno usufruito di alcun aumento, o gratifica, o premio nel periodo medio in cui sono state attribuite alla popolazione aziendale dello stesso livello professionale (e comunque al massimo a non più di 5 anni dall’ultimo aumento ricevuto).
  • Istituzione di premi aziendali per dipendenti che usufruiscono di congedi parentali e premessi a qualsiasi titolo collegati con il lavoro di cura, favorendone il pieno utilizzo per coloro che ne fanno richiesta, promuovendo campagne aziendali di facilitazione e promozione, progettando forme e modalità di ampliamento dell’uso degli stessi per donne e uomini.
  • Istituzioni di fondi aziendali che finanzino la riduzione temporanea del lavoro per coloro che hanno maggiori carichi di lavoro di cura (donne al rientro dalla maternità, genitori single, esigenze di assistenza familiare particolarmente gravose), coprendo almeno il 50% della diminuzione del salario causato dalla riduzione dell’orario (es. part time temporanei al 50% pagati al 75%).

E i sindacati?

Nonostante la legge e i contratti prevedano la parità di retribuzione, per quanto riguarda gli interventi di contrasto al differenziale retributivo di fatto tra uomini e donne non si può che fare un bilancio piuttosto deludente delle politiche sindacali e contrattuali sia a livello nazionale che aziendale.

Infatti, sebbene dagli anni ’90 in avanti quasi tutti i contratti nazionali e moltissimi accordi aziendali di secondo livello abbiano istituito commissioni di parità nazionali, di comparto e aziendali, scarsissime sono state le contrattazioni che hanno posto al centro l’obbiettivo del superamento del gap di genere, spesso limitando l’intervento di parità al solo tema della flessibilità degli orari, visti come risorsa per far fronte al bilanciamento tra il lavoro professionale e quello casalingo e/o di cura, ma che spesso si sono rivelati essere una trappola di ulteriore indebolimento delle posizioni lavorative delle donne.

Per esempio è mancata una politica sindacale di forte contrasto al dilagare del lavoro straordinario e festivo. Anzi, sotto l’egida del maggiore utilizzo degli impianti, dell’allungamento dei nastri orari verso le ore serali e notturne, dello scambio tra flessibilità e controllo sui calendari annui, si è lasciato tendenzialmente affermare un modello 24/7, in cui coloro che hanno maggiori carichi e responsabilità familiari vengono spinte al part time (se non alle dimissioni). I dati a disposizione ci dicono infatti che quasi il 33% delle donne ha lavorato part time nel 2019, contro il 25% di 14 anni fa, mentre il part time maschile si assesta oggi ad un massimo del 8,7%, rispetto a poco meno del 5% del 2007. E’ stata inoltre del tutto abbandonata nella contrattazione nazionale una politica orientata alla riduzione dell’orario giornaliero e settimanale. E’ evidente che l’obiettivo di orari di lavoro di 30/32 ore settimanali (realizzati in Germania in alcuni grandi gruppi multinazionali, come ad esempio la VolksWagen ) favorirebbe una maggiore e più agevole presenza femminile e una maggiore parità retributiva tra i sessi.

In materia di salario si sono spesso contrattati premi di risultato legati alla presenza, in cui tra le assenze che concorrono a ridurre (fino ad azzerare) il premio vengono contabilizzati anche i congedi parentali, i permessi ex lege 104, i permessi per malattia dei figli, contribuendo direttamente ad aumentare il divario retributivo invece che a ridurlo.
Fece scalpore nel 2012 la lettera aperta all’allora Ministra del Lavoro Fornero, con cui le lavoratrici della Fiat/FCA denunciavano come discriminatorio il premio di risultato inserito nel nuovo contratto aziendale della multinazionale italo-americana, che esplicitamente penalizzava coloro (quasi esclusivamente le donne) che utilizzavano congedi familiari e permessi di cura.
Ma questo rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più diffuso nella contrattazione aziendale, di cui a tutt’oggi non c’è piena conoscenza e consapevolezza da parte dei sindacati aziendali e nazionali.

Così come non c’è stato, da parte sindacale, il dovuto controllo sul rispetto dell’obbligo di compilazione del rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile da parte delle aziende. Vissuta più che altro come una inutile perdita di tempo di carattere routinario, a seguito della consegna alle RSU/RSA dei rapporti non si sono sviluppate, sulla base dei dati ivi contenuti, verifiche e contrattazioni aziendali finalizzate a intervenire e a modificare quelle storture di funzionamento non paritario nella gestione del personale che emergevano dai dati, anche se lacunosi e confusi. In diverse aziende neppure è stata data informazione e comunicazione a lavoratrici e lavoratori dei contenuti dei rapporti stessi.

In questo panorama piuttosto distratto e noncurante sul tema ha fatto eccezione di recente un documento molto dettagliato, che le delegate sindacali di una multinazionale del settore Information Comunication Thecnology hanno redatto nel 2019, proprio sulla base dei dati degli ultimi tre rapporti biennali della propria azienda, in cui evidenziano il proprio disappunto nello scoprire un differenziale delle retribuzioni annue lorde tra uomini e donne di ben di 6.367,98 € al 7° livello, che diviso per le 14 mensilità significa 454 € al mese in meno, a parità di mansione e inquadramento professionale. Tuttavia alla loro denuncia non seguì un’ energica e conseguente contrattazione di parità, perché a causa dei profondi processi di riorganizzazione l’azienda spingeva agli esodi e l’attività sindacale fu concentrata a contrastare i processi di espulsione “spintanea”.

In genere, eccezion fatta per alcune commissioni di parità di grandi enti e strutture pubbliche, l’attività delle stesse commissioni nelle grandi imprese private è stata irrilevante, sicuramente deficitaria nell’imprimere una connotazione politica di genere alla contrattazione su tutti i livelli ed in particolare sui temi salariali e retributivi.

Consigliere di Parità

Altrettanto debole ed inefficace è stato l’intervento delle Consigliere di Parità, pubblici ufficiali alla stregua di ispettori del lavoro, che il legislatore ha istituito a presidio di politiche paritarie nel lavoro e nel sistema delle professioni. A 30 anni di distanza dalla loro istituzione manca un bilancio da parte del Ministero del Lavoro, della Consigliera nazionale di parità e della rete delle Consigliere regionali e provinciali, a testimonianza della scarsa efficacia del loro ruolo e della difficoltà a mettere in atto interventi e azioni di contrasto a un fenomeno così diffuso, pervasivo e resistente come il gender pay gap, che rimane fortemente radicato in tutte le aree territoriali e i comparti produttivi del nostro Paese.

Scarsa autorevolezza nei confronti delle imprese, debole (per non dire quasi inesistente) sistema sanzionatorio, scarsi strumenti d’intervento e di monitoraggio delle problematiche rilevate, sono questi i principali fattori di inefficacia. Una riforma della legislazione a sostegno delle politiche paritarie sui luoghi di lavoro non può prescindere dal rafforzamento del diritto soggettivo ad agire da parte della persona discriminata, senza l’ottenimento del pieno e totale accesso agli atti da parte della lavoratrice/lavoratore che si sente discriminata, non c’è certezza di diritto.

Ciò significa che le imprese, senza rinunciare ad una gestione “discrezionale“ delle politiche retributive e professionali nel proprio ambito d’attività, dovrebbero essere per legge tenute alla trasparenza del proprio operato, rendendo noti ai lavoratori i criteri, le linee guida e le procedure attraverso cui dispongono il sistema premiale e remunerativo interno, sviluppano carriere e percorsi professionali dei propri dipendenti. Ma nell’impresa vale il principio monocratico, oligarchico (e aggiungiamo patriarcale) dell’insindacabilità delle politiche di gestione del personale, della segretezza e della riservatezza dei criteri che ispirano le scelte retributive e premiali.
Nessuno sa quanto guadagna il proprio vicino di scrivania o di postazione, o il collega con cui collabora da anni. Dietro alla giusta esigenza della garanzia della privacy si nasconde la gestione del potere gerarchico e discrezionale, così come dentro questo spazio cieco albergano spesso vere e proprie discriminazioni, che rimangono l’ostacolo più duro al dispiegarsi di reali politiche paritarie.

Il legislatore non può ignorare questa realtà e far finta di credere che le imprese rendano trasparenti e leggibili ai dipendenti i sistemi e le politiche di gestione “unilaterale” delle risorse umane, che insomma siano disponibili alla democratizzazione interna. Se si vuole realmente modificare un sistema che produce disparità, il legislatore dovrà porsi come elemento forte di stimolo, verifica, garanzia e controllo.

Politiche di sistema

Per aggredire la disparità economica, oltre a interventi che modifichino il sistema delle imprese nelle politiche di gestione del personale, servono interventi anche in altre direzioni.
Il dato delle basse retribuzioni delle donne è testimoniato da vari indicatori e rilevazioni statistiche, come si può evincere sia dalla Tavola 1, che riporta i redditi da lavoro per sesso, tipologia di reddito, titolo di studio ed età, sia dalla Tavola 2, dov’è invece riportata in percentuale la presenza nei lavori a bassa retribuzione e quelli sovraistruiti, fenomeno quest’ultimo che riguarda in particolare le coorti giovanili di entrambi i sessi, ma che poi nel corso di dieci anni si è intensificato anche per i lavoratori più maturi e anziani.

Salario minimo contro il lavoro povero

Circa il 10% delle donne che lavorano percepisce retribuzioni che sono al di sotto del 75% della retribuzione mediana, mentre lo stesso fenomeno riguarda quasi il 6% degli uomini. Per le donne la bassa retribuzione, pur essendo molto diffusa in età giovanile, rimane tuttavia apprezzabile anche per in età adulta.
Se guardiamo i dati dei redditi da lavoro per età e titolo di studio, costatiamo che per raggiungere il livello mediano (pari a poco più di 17.000 euro netti) le donne devono essere giunte a fine carriera (oltre i 50 anni di età) e avere titoli universitari, mentre gli uomini raggiungono e superano abbondantemente la fascia mediana già dopo i 35 anni di età, anche solo con il diploma di licenza superiore.
Avere una retribuzione inferiore al 75% della mediana è il criterio che viene adottato per indicare i soggetti in povertà relativa, quindi abbiamo il 10% delle donne lavoratrici che sono povere e non solo da giovani, sempre che sia giusto avere una popolazione giovanile condannata alla povertà!

E’ evidente che un intervento legislativo che istituisca un salario minimo non inferiore anche solo al 75% della retribuzione mediana sarebbe un forte elemento di perequazione retributiva tra i generi, se consideriamo che il 16% delle lavoratrici sotto i 35 anni ha una retribuzione inferiore a questo valore.

Se questo provvedimento fosse accompagnato da una rivisitazione delle aliquote contributive, che portasse la fascia esente a 13.000€, avremmo un effetto più che raddoppiato, in quanto secondo i dati Istat sui redditi netti da lavoro dipendente la media dei redditi delle donne giovani e di quelle con la licenza media sarebbe completamente detassata, mentre per il lavoro autonomo questa fascia esente coprirebbe anche una parte delle lavoratrici con licenza superiore. Senza considerare il necessario sostegno che offrirebbe alle imprese, specie quelle minori, nel processo di riallineamento al nuovo salario minimo, che si collocherebbe sicuramente al di sopra di molti minimi contrattuali attualmente in vigore e che, guarda caso, riguardano proprio settori merceologici ad alta presenza femminile, quali ad esempio le pulizie, l’assistenza sociosanitaria, le cooperative sociali, le parrucchiere, le multiservizi e i più bassi livelli operai delle industrie manifatturiere, solo per citarne alcuni.

Per quanto riguarda il lavoro domestico e di cura alle persone, la transizione verso più giusti salari (i minimi previsti attualmente sono vergognosamente bassi e nei fatti, fuori mercato), si dovrebbe raggiungere anche con un provvedimento di detrazione dall’Irpef del 100% delle spese sostenute dal datore familiare, in modo di permettere ai lavoratori con redditi medio-bassi di far fronte a spese per l’aiuto domestico e l’assistenza ad anziani e minori e, allo stesso tempo, sarebbe una leva importante per la regolarizzazione di circa un milione di lavoratrici domestiche che attualmente lavorano a nero.

Maternità e congedi parentali

Non si può pensare di aggredire i differenziali di genere senza un intervento di ampliamento e rafforzamento degli istituti a supporto di maternità, genitorialità condivisa, responsabilità nei confronti di minori e persone fragili e non autosufficienti. Nonostante una buona legge di supporto alla maternità, bisogna ricordare che l’indennità di maternità attualmente non è ancora al 100% per tutte le lavoratrici. Infatti non in tutti i contratti e le tipologie lavorative è prevista l’integrazione da parte del datore di lavoro al contributo INPS che è pari all’80%, inoltre per molte lavoratrici precarie oggi l’indennità di maternità non è un diritto acquisito, troppo condizionata dalla pregressa attività lavorativa e contributiva che spesso non da i requisiti per accedere all’indennità, oppure consente una copertura veramente misera, nell’ordine delle poche centinaia di euro.

Una legge di riforma dovrebbe prevedere invece un’indennità di maternità universale di 5 mesi a carico della fiscalità generale, pari al 100% dello stipendio, oppure pari all’importo massimo dell’indennità di disoccupazione (Naspi) per tutte le donne inoccupate e con contratti (saltuari, parasubordinati o a partita iva) che non hanno una capienza corrispondente, in modo che nessuna donna si debba trovare nelle condizioni di affrontare la gravidanza e i primi mesi di rapporto col figlio in condizione di povertà o indigenza personale, o in completa dipendenza dal salario del compagno/marito o della famiglia d’origine.

I congedi parentali sono vergognosamente sottopagati: un’indennità pari al 30% della retribuzione, con i bassi livelli salariali esistenti, se la possono permettere solo coloro che hanno un doppio reddito familiare e quindi, ancora una volta, ne risultano penalizzati i salari femminili che in genere sono più bassi di quelli degli uomini. E’ urgente portare la copertura economica dei congedi ad almeno il 60% dello stipendio e incentivarne la possibile integrazione da parte delle imprese (70/80%) e/o una loro maggiore estensione per periodi di congedo previsti (fino a 12 mesi). Una strategia di questo tipo avrebbe l’effetto favorire un maggiore utilizzo dei congedi da parte anche dei padri (che attualmente in Italia utilizzano i congedi solo per il 7%, mentre in Svezia, dove la copertura economica garantisce l’80% dello stipendio , ne usufruiscono il 70% degli uomini).

La condivisione delle responsabilità familiari e di cura richiede anche l’estensione dei congedi di paternità obbligatori in occasione della nascita. Attualmente sono di una sola settimana e non permettono certo una vera presenza paterna nei primi mesi di vita dei bambini. Alla stregua di quelli materni, i congedi di paternità coperti al 100% dello stipendio andrebbero estesi a tre mesi e utilizzati obbligatoriamente nel primo anno di vita del figlio, in modo da affiancarsi sia al periodo di congedo delle madri, sia al periodo delicato del reingresso delle stesse nel lavoro, sostituendole nell’accudimento familiare dei piccoli. Incentivare le “assenze” dal lavoro per responsabilità familiare degli uomini avrebbe anche il merito di far riconsiderare in modo globale un modello lavorativo tutto centrato sulla competizione performativa, sul conseguimento di risultati competitivi, sull’adesione totalizzante agli obiettivi dell’impresa.

Welfare e reddito di autodeterminazione

E’ evidente che tutti questi provvedimenti e interventi andrebbero sostenuti da una strategia pubblica di potenziamento e qualificazione dei sevizi per l’infanzia, dagli asili nido alla scuola primaria a tempo pieno, ai servizi per lo sport e il tempo libero, nonché di quelli per gli anziani e le persone fragili e non autosufficienti. Condizione questa indispensabile, anche se non sufficiente, verso l’obiettivo di una parità retributiva ed economica tra i generi.
Al tempo stesso servirebbe una misura universalistica di reddito di base o di esistenza o, meglio, di autodeterminazione (secondo un’impronta più femminista) come strumento di contrasto alla povertà di cui le donne sono grande parte. Ciò contribuirebbe a sostenere la complicata transizione tra occupazione, disoccupazione, inattività che descrive molta parte delle biografie lavorative delle donne , in particolare nelle regioni meridionali, dove spesso l’attività lavorativa femminile è sommersa in condizioni di lavoro nero e irregolare, con redditi al di sotto dei livelli di sussistenza. La modifica dei criteri di accesso, il potenziamento della misura ed una sua separazione dalle cosiddette politiche attive, nonché l’allargamento della platea di riferimento dell’attuale reddito di cittadinanza possono costituire un primo, indispensabile passo in questa direzione, ma una riforma organica verso misure di welfare universale resta comunque necessaria.

Diritti per genitori dello stesso sesso

In ultimo una questione su cui raramente ci si sofferma: le famiglie sono cambiate e, anche se nel nostro Paese non è ancora riconosciuto il matrimonio omosessuale, a seguito dell’affermazione delle unioni civili è riconosciuta la convivenza “familiare“ tra persone di uno stesso sesso. Sarebbe indispensabile che questo riconoscimento fosse pieno anche per i diritti ad accedere ai congedi parentali per entrambi i componenti della coppia genitoriale, indipendentemente dal sesso e indipendentemente dal fatto che l’altro genitore abbia adottato legalmente il figlio del compagno/a, purché convivente nel nucleo familiare, consentendone la registrazione nello stato di famiglia a tutti gli effetti. Ciò dovrebbe valere anche per il riconoscimento degli assegni familiari e per usufruire del congedo obbligatorio.

Anche se i soggetti che potrebbero giovarsene sono per ora una platea di nicchia, tuttavia sarebbe una scelta di civiltà, un impegno verso l’affermazione nel lavoro di diritti soggettivi che riconoscono la dignità delle persone delle loro scelte di vita e familiari, andando oltre una cultura discriminante e omofoba.

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