La lotta alla violenza di genere interpella alla radice le nostre società, nelle relazioni interpersonali come nei rapporti lavorativi e di riproduzione: è al tempo stesso lotta per l’autonomia, la dignità e l’uguaglianza, per il rispetto tra e oltre i generi contro ogni forma di discriminazione, prevaricazione, umiliazione ed emarginazione. Lotta contro le guerre, che sterminano popolazioni inermi seguendo la logica del dominio economico, dello sfruttamento di territori e comunità umane, alimentate da ideologie e pratiche integraliste e totalitarie.
Come CLAP, attraversiamo la giornata di sciopero globale dell’8 marzo con la consapevolezza che l’intersezione fra violenza di genere e violenza economica continua a essere il maggior fattore di penalizzazione, svantaggio e svalorizzazione del lavoro delle donne e delle soggettività “non conformi”.
In uno scenario in cui il mercato del lavoro diventa sempre più precario (ormai oltre il 90% delle nuove assunzioni sono con contratti precari ), e i salari sempre più poveri per tutte e tutti, metà delle donne del nostro Paese non sono occupate e permane una segregazione verticale e orizzontale del lavoro femminile in un paradigma economico sessista e patriarcale, in cui il lavoro di cura è quasi esclusivo appannaggio delle donne e la maternità (quella reale e quella ipotetica) considerata uno svantaggio.
Gli istituti di legge e contrattuali a sostegno della maternità/ paternità e della genitorialità condivisa sono miseri e anacronistici, escludenti per le famiglie omogenitoriali, del tutto inaccessibili per precar3, disoccupat3 e lavorator3 domestic3, comunque insufficienti a garantire continuità lavorativa e piena parità di diritti professionali e retributivi per chi ne usufruisce.
Al ricatto della cura si aggiunge il tema del costante peggioramento delle condizioni di lavoro: le donne in Italia, lavorano con contratti più precari, spesso per meno ore, a part time, a progetto , con false partite Iva, voucher, a giornata e con tutta quell’ampia fetta di contratti cosiddetti “atipici”.
I dati sul part-time involontario parlano chiaro: il 49,6% delle donne lavora a part time (solo il 26,6% degli uomini), ma per il 61,2% di queste lavoratrici si tratta di un part-time imposto dal datore di lavoro, dunque involontario, spesso con orari ridottissimi e frammentati con retribuzioni così basse da non consentire l’autonomia economica.
A causa delle peggiori condizioni contrattuali le donne sono anche più fragili, più esposte alla discontinuità lavorativa e alla disoccupazione di lunga durata, più soggette a ricatti, aggressioni e molestie sessuali fisiche e verbali. Spesso lo stigma culturale e la colpevolizzazione paradossalmente ricade sulla “vittima” anche quando è riconosciuta tale, per il permanere di un sistema di potere rigidamente gerarchizzato in base al genere , in cui la sessualizzazione dei ruoli lavorativi impone alle donne di svolgere attività e compiti ancillari non previsti dalla propria mansione ma richieste dal capo di turno in un rapporto tossico di subordinazione.
I più recenti dati sul Gender Pay Gap (INPS) ci ricordano che, anche a fronte delle diverse condizioni di lavoro, nel settore privato le donne guadagnano circa 7.922 euro all’anno in meno rispetto agli uomini. Fattori determinanti sono, in tal senso, il sottoinquadramento, la titolarità di forme contrattuali meno tutelate, l’esclusione dalle posizioni lavorative apicali, le carriere bloccate, un sistema premiante dei salari aziendali (contrattati e non) che penalizza l’accesso volontario alle misure di equilibrio vita-lavoro, a cui ricorrono quasi esclusivamente le donne.
Non è una combinazione, poi, che le donne siano occupate soprattutto nel settore dei servizi e all’interno di quelle attività (operator* sanitari*, educator*, insegnant*, lavorator* della cura, lavorator* domestic*, etc.) che, seppur definite essenziali, vengono costantemente invisibilizzate e svalutate, tanto a livello sociale, quanto economico. Le vertenze che si sviluppano in tali ambiti lavorativi mostrano con evidenza il nesso tra violenza patriarcale e politiche neoliberali: pensiamo alle lavoratrici OEPAC (operator* educativ* per l’autonomia e la comunicazione), che si prendono carico dell’educazione e cura di persone con disabilità a condizioni lavorative vergognose e nella totale dismissione del welfare, ma pensiamo anche alle operatrici all’interno dei Centri anti-violenza, il cui valore sociale imprescindibile non viene riconosciuto, nemmeno quando tutta Italia sembra scioccarsi di fronte all’ennesimo femminicidio.
Ed è contro la svalutazione del lavoro femminile e femminilizzato, tanto nell’ambito del lavoro salariato, quanto in quello privato delle case, che intendiamo tornare a scioperare questo 8 marzo per aggredire le radici del sessismo e del patriarcato nelle relazioni e nei rapporti di lavoro, che determinando scelte organizzative, salariali, gestionali, forgiando culture e sistemi lavorativi, influenzano condizioni di vita, immaginario collettivo e processi di valorizzazione/
Come CLAP, vogliamo sperimentare nei prossimi mesi, pratiche sindacali innovative, vertenze e azioni giudiziali che intervengano sui fattori di discriminazione, svalutazione e oppressione a partire dalle soggettività che ne sono protagoniste ovvero dalla potenza della lettura femminista e transfemminista delle contraddizioni e dei conflitti che nel lavoro e per il lavoro si determinano, convint3 che Il processo di liberazione e autodeterminazione delle donne sia condizione e misura per la libertà, equità e giustizia di tutte e tutti.
CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario