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La passione al lavoro

1 December 2017 |  Clap Roma

La maggior parte dei lavori che riguardano lo studio, la tutela, la promozione e la gestione del patrimonio storico e turistico è da sempre, per ragioni storiche e culturali, campo di sperimentazione e paradigma di lavoro precario, sottopagato e addirittura gratuito.

Per sua stessa costituzione, sembra che dai tempi di Schielimann in poi il mestiere dell’archeologo e tutti quelli a esso collegati non debbano avere, come qualsiasi altra prestazione lavorativa, un corrispettivo economico ma che sia sufficiente come ricompensa una incommensurabile, impagabile e sconfinata passione. È da queste radici culturali che si è fondato il principio di sfruttamento delle professioni legate al patrimonio culturale tangibile, in Italia ma non solo.

Già prima che la trasformazione neoliberale dell’università fosse stata portata a termine, e che i tirocini formativi diventassero inevitabili per qualsiasi corso di studio, era obbligatorio per tutti gli studenti di archeologia e di gestione dei beni culturali svolgere un tot di settimane fra scavi e musei, per imparare il mestiere e fare esperienza, perché la solo teoria (ed è vero) non bastava, perché le competenze di ognuno dovevano essere messe al vaglio sul campo. Queste “professioni”, come tantissime altre all’interno del cosiddetto lavoro culturale, si inseriscono al limite di quel crinale scivoloso, labile profondamente ambiguo della formazione, del dover far pratica. E in effetti sarebbe importante e opportuno imparare sul campo, se questo non fosse però l’inizio di una lunga e desolante carriera a costo zero. È chiaro, infatti, che per comprendere un rapporto stratigrafico, per realizzare una tipologia vascolare un archeologo debba nel vero senso del termine sporcarsi le mani in un sito, così come uno storico dell’arte deve conoscere i musei, comprendere come posizionare una luce su un quadro, come si scrive un pannello e tutte queste attività non si possono portare a termine se non si fa pratica. Tutto giusto, tutto sensato se non fosse che il tirocinio da temporaneo diventa spesso e sovente permanente, che i direttori dei grandi scavi universitari fanno svolgere agli studenti il lavoro di archeologi professionisti, non dando loro il tempo di imparare ma gettandoli subito nell’arena della competizione, dell’auto-sfruttamento, della produttività a ogni costo… chi sancisce infatti il confine fra apprendistato e sfruttamento? Nessuno, perché è quasi impossibile definirlo oggettivamente, e spesso si confondono meccanismi ambigui di auto-sfruttamento con il desiderio di conoscenza. E così abbindolati dalla “passione” e sostenuti dal subdolo ricatto promosso dall’economia della promessa, si iniziano “carriere” anche decennali con partecipazione a campagne di scavo, scritture di panel, curatela di mostre, stesura di progetti di promozione didattica e di materiale esplicativo, in cui le competenze e l’esperienza crescono, anzi spesso eccedono ma la retribuzione resta inesorabilmente al palo. Tanto c’è la passione che ti sostiene. Ma in questo maledetto e bizzarro gioco al massacro il paradosso non finisce qui.

La passione, a un certo punto non solo è la retribuzione ordinaria per un lavoratore culturale ma inizia addirittura a sostituire le competenze, quelle per cui sin dall’università si è lavorato costantemente. Come in una sorta di ribaltamento, la propria professionalità è sostituita da attitudine più vaghe come l’interesse e la propensione all’argomento. E’ infatti ormai giudizio comune, colpa forse ancora una volta del maledetto Schiliemann, che le competenze di un lavoratore dei beni culturali possano essere facilmente sostituite dalla propensione e dall’amore per tematiche di interesse storico-artistico. Così da qualche anno fioccano volontari che hanno sostituito guide esperte ed abilitate nella promozione e nelle visite ufficiali di monumenti. È per esempio motivo di gran vanto per la presidenza della Repubblica aver affidato ai volontari del Touring Club le visite guidate (a pagamento, queste) dentro al Palazzo del Quirinale. Ma questo è solo un esempio tra le tante istituzioni museali, parchi archeologici e biblioteche che hanno iniziato a utilizzare volontari come personale di sala e di supporto ai visitatori. La lista è lunghissima, si passa dai siti gestiti dal FAI (Fondo per l’ambiente italiano) fino al Museo di Palazzo Massimo a Roma dove da qualche mese sono entrati come assistenti di sala i volontari/giovani archeologi del servizio civile (questi almeno pagati anche se una miseria).

Non c’è bisogno di dire che queste figure già di per sé sfruttate sottraggono spazio, lavoro e opportunità ai lavoratori specializzati, e contribuiscono di conseguenza a erodere i pochi diritti ancora rimasti. Non a caso, anche nei siti ad alto interesse culturale e turistico dove ci si avvale di figure professionali i diritti dei lavoratori e lavoratrici si stanno anno dopo anno, Jobs Act dopo Jobs Act, tirocinio dopo tirocinio drammaticamente assottigliando. Prendiamo, fra i tanti altri, il caso di Coopculture concessionario dell’area archeologica di Roma comprendente Colosseo Foro Palatino, Domus Aurea e i quattro musei del MNR (Museo Nazionale Romano). Il servizio didattico (in termini più profani le guide all’interno dei siti) vengono svolte dal personale di Coopculture, di cui una parte risulta socio della cooperativa un’altra è invece composta da “lavoratori autonomi” con regolare partita Iva o con contratti di prestazione occasionale rinnovabili annualmente. Peccato che non esista alcune differenza di prestazione tra i soci lavoratori e le partite Iva. Come ai soci, anche agli “autonomi” vengono affidati dei turni settimanali assegnati dagli scheduler della società in base alle disponibilità che il collaboratore ha dato la settimana prima: orari, sito in cui fare la visita e ovviamente compenso vengono decisi monodirezionalmente dalla società, la visite serali estive fanno parte dello stesso organigramma e (ovviamente) non prevedono per gli autonomi alcun compenso straordinario. A questo si aggiunga un’altra serie di “obblighi” accessori, come avvisare in anticipo un coordinamento della propria assenza (che in nessun caso ti verrà retribuita), essere sottoposti a volte a un monitoraggio e (solo per alcuni siti) seguire un dress-code imposto dalla società. La retribuzione per ciascuna prestazione è leggermente più bassa di quelle delle guide turistiche esterne, e ovviamente la tutela del lavoro è pari a zero, ma anche nelle altre agenzie le acque non sono così limpide. Le compagnie che offrono servizi turistici e di promozione dei siti storici lavorano sempre con lavoratori autonomi a cui anche loro assegnano i turni in base alla disponibilità, spesso chiedono loyalty e sottopongono le guide a valutazioni dei turisti che diventano dirimenti per continuare o meno la collaborazione con l’agenzia. Non sono dunque fondamentali le conoscenze del sito e le competenze per guidare un gruppo, ma il giudizio (insindacabile) dei turisti che in base alla loro soddisfazione assegnano stelline come nei ristoranti o negli hotel; così il proprio futuro nell’agenzia è spesso legato al parere di un turista che magari assegna poche stelline perché a Roma a luglio fa troppo caldo e non c’è l’ombra. Inoltre spesso queste agenzie non hanno sede né legale né commerciale in Italia, riducendo ancora più drasticamente la possibilità dei lavoratori di tutelare i loro già scarsi diritti. Tra competizione, valutazione sfrenata e ansie varie, la passione viene così messa a dura prova, ma anche quando si tenta di inserirsi in percorsi lavorativi più “sicuri” le cose non cambiano. Facciamo ancora una volta un esempio concreto. Circa un mese Fa Ales (società interna al MiBACt) apre delle posizioni lavorative per la mansione di custode in alcune aree archeologiche e storiche di diverse regioni italiane. Per un posto di guardiania chiedono giustamente come titolo di studio obbligatorio un diploma di scuola superiore, sono invece problematiche tutte le competenze accessorie inserite nel bando: conoscenza dell’inglese obbligatoria e di un’altra lingua straniera, comprovata esperienza nel campo della promozione dei beni culturali, comprovata esperienza come guida turistica, conoscenza del patrimonio archeologico e storico artistico italiano. Così, come per magia, le “competenze accessorie” trasformano un diploma in una laurea specifica e in un’abilitazione da guida turistica. Ales ha chiaramente bisogno di mediatori museali nei siti ma non vuole ovviamente pagarli come tali, così inventa questa ibrida figura del custode archeologo/storico dell’arte, senza neanche inserire nel bando la retribuzione offerta. Tanti lavoratori dei beni culturali con dottorati di ricerca e mille altre esperienze nel campo hanno comunque presentato la domanda sapendo che almeno Ales paga gli straordinari e che la retribuzione (seppure inferiore rispetto alla figura richiesta) non è soggetta alla criminale pressione fiscale della partita Iva. Resta il fatto che il bando di Ales è un’evidente quanto imbarazzante operazione di demansionamento delle attività lavorative.

Questi sono solo alcuni dei tanti casi che si potrebbero raccontare a riguardo della drammatica situazione in cui versano i lavoratori dei beni culturali in Italia. Innumerevoli sono le storie sparse su tutto il territorio che dovrebbero essere indagate, portate alla luce e raccontate per far prendere consapevolezza alla molteplicità di figure che compongono questo mondo di quali siano i propri diritti, per farsi forza e iniziare insieme a rompere il ricatto basato sul cattivo senso comune per cui basta la passione per andare avanti. Infatti, al netto di ciò che è stato detto siamo sicuri che anni e anni di precarietà, di mancanza di diritti e di lavoro gratuito siano bene ricompensati dalla passione, dalla continua promessa di un lavoro migliore in futuro? La risposta è ovviamente negativa e se finora non è stato così, è arrivato il momento di cambiare rotta tutti insieme e con tanta vera passione.

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