
Alcuni anni fa abbiamo iniziato una battaglia dentro il Teatro di Roma, una battaglia che rivendicava un principio tanto semplice quanto incredibilmente mai sollevato: il diritto di lavoratrici e lavoratori ad avere un impiego stabile.
Contratti precari reiterati per decenni con la scusa della “stagionalità” tipica del lavoro culturale, salari da fame, nessun diritto e massima ricattabilità: questo era il Teatro di Roma.
A questa visione abbiamo opposto un’idea diversa: il lavoro culturale non può essere un’equazione a somma zero, nella quale il sacrificio e la passione debbano dare come risultato sfruttamento e salari indegni, soprattutto nell’impresa a sovvenzione pubblica. Il lavoro culturale non è un corollario sacrificabile sull’altare delle scintillanti “vetrine” usa e getta, la qualità degli spettacoli e di quanto viene prodotto non può che andare a braccetto con la qualità dei diritti, dei salari e con la stabilità occupazionale.
Abbiamo immaginato un teatro che tutelasse la comunità di lavoratrici e lavoratori, consapevole della funzione fondamentale che deve svolgere per la sua città e per i suoi abitanti. Un teatro che non affami chi soddisfa la voglia di cultura e desiderio che e attraversa la nostra metropoli.
Troppi “NO” abbiamo ascoltato in questi anni, da chi sostiene che la precarietà sia elemento strutturale del lavoro culturale: sindacati e direttori, commissari e assessori. NO utili a mantenere vivo il ricatto della precarietà, dello sfruttamento, dell’utilizzo del lavoro come motore del potere personalistico e di categoria, no pronunciati anche da chi, nei prossimi giorni, fingerà di festeggiare le stabilizzazioni e cercherà di prendersene il merito. A tutti loro diciamo che quello che conta è quell’idea di teatro pubblico sulla quale continueremo a sfidarli, senza sosta, e che le risposte ironiche e sprezzanti che hanno dato negli anni alle nostre rivendicazioni hanno sempre nascosto una gigantesca paura: la paura che il castello fatto di sfruttamento e precarietà su cui si reggeva l’istituzione culturale di questa città crollasse, insieme ai loro privilegi.
Testardi abbiamo continuato a ribadire i nostri SI: si al lavoro stabile, si ad un salario dignitoso, si ai diritti a prescindere dalla tessera sindacale. Attorno a questi si abbiamo incontrato compagni di viaggio preziosi, che hanno creato le condizioni perché tutto questo fosse possibile, che a più riprese abbiamo ringraziato e ringraziamo ancora: l’assemblea “Vogliamo tutt’altro”, le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo che dal primo giorno sono stati protagonisti insieme a noi di questa battaglia, l’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e i consiglieri regionali e comunali che ci hanno affiancato e hanno saputo scegliere da che parte stare, senza dubbi o tentennamenti.
Abbiamo pagato un prezzo fatto di riduzioni dell’orario di lavoro, clima ostile, ostracismo nei confronti della nostra O.S. da parte di piccoli e grandi potentati, equilibrismi impossibili, ma alla fine abbiamo vinto, a testa alta senza dover rendere conto a re e regine.
Dal 30 Dicembre decine di lavoratori e lavoratrici precarie del Teatro di Roma vedranno trasformati i propri contratti a tempo indeterminato. Avevamo ragione noi!
Ora, ottenuta la più importante stabilizzazione nel teatro pubblico italiano, continueremo a lavorare per la democrazia sindacale, la fine delle assunzioni tramite chiamate diretta, il rinnovo del CCNL con adeguamenti al costo della vita, giusto salario e riconoscimento professionale per lavoratrici e lavoratori dei teatri pubblici di periferia, la crescita professionale delle lavoratrici e dei lavoratori del Teatro e soprattutto per la fine delle rendite di posizione e potere che hanno fatto credere negli anni che il Teatro fosse proprietà di qualcuno.
Ora siamo più liberi, consapevoli di aver portato a conclusione una battaglia importante senza compromessi sulla dignità di lavoratori e lavoratrici. Ma la vera partita inizia adesso, e la possiamo giocare solo insieme. Con coraggio, a testa alta e senza dover ringraziare nessuno.
Perché un torto fatto a un* è un torto fatto a tutt*.
Perché se ti insegnano a non splendere tu, invece, splendi.