
Di Mariateresa Curcio
Octay Stroyci, operaio di 66 anni che lavorava nel cantiere di restauro della Torre dei Conti, è morto in ospedale dopo undici ore trascorse sotto le macerie del doppio cedimento della struttura medievale, che ha causato anche il ferimento di altri lavoratori.
All’indomani della tragedia, si grida al disastro, ci si rimpalla le responsabilità e si cerca una spiegazione a un cedimento non solo strutturale, ma anche simbolico del patrimonio culturale di Roma e non solo. Al di là delle polemiche e dello shock nel vedere le macerie di un monumento così importante per la collettività, resta la rabbia per la morte di un uomo che, a 66 anni, ancora lavorava in un cantiere edile — a un’età in cui si dovrebbe già poter andare in pensione, soprattutto in un mestiere tanto usurante.
Questa tragedia riporta con forza al centro del dibattito la questione delle tutele: delle tutele e delle garanzie di sicurezza nel mondo del lavoro e della tutela del nostro patrimonio culturale.
Da oltre vent’anni assistiamo a una trasformazione radicale, pratica e di senso, nella gestione del patrimonio culturale: si è puntato quasi tutto sulla valorizzazione dei monumenti e dei siti di interesse storico-artistico, a discapito della loro tutela e conservazione. Non che la valorizzazione, se indirizzata agli interessi della collettività, sia di per sé un male; ma in molti avevano già avvertito i gravi rischi di questo approccio. È stato più volte segnalato come la corsa alla valorizzazione, se non accompagnata da interventi ordinari — e non straordinari, come quelli del PNRR — di manutenzione e prevenzione, avrebbe potuto compromettere la sicurezza dei beni stessi e di chi vi lavora. Quando i progetti privilegiano la valorizzazione economica e turistica, mettendo in secondo piano la loro manutenzione, la cura delle loro fragilità strutturali il risultato è prevedibile — e ieri ne abbiamo visto le rovinose conseguenze.
Crollano i solai, ma crollano anche certezze che per decenni ci sono state proposte come granitiche. Un modello di gestione piegato spesso agli interessi privati, alla mercificazione e a una valorizzazione che parla quasi esclusivamente il linguaggio del profitto e della turistificazione sembrava l’unico modello perseguibile, l’unico efficace, determinando di fatto un cambiamento più generale del significato stesso della parola “tutela”, per cui il doveroso obiettivo di conservazione dei monumenti, nell’interesse delle comunità di oggi e di domani restava solo sullo sfondo.
Il crollo della Torre dei Conti ha però anche messo in luce non solo la fragilità delle strutture medievali, ma anche la fragilità e la precarietà del lavoro legato al patrimonio culturale, dentro e fuori i cantieri. Un lavoro segnato da subappalti, contratti instabili, finte partite IVA, responsabilità sproporzionate per archeologi e addetti ai lavori, e scarse tutele. Operai e tecnici che lavorano spesso in condizioni di rischio, sotto il sole cocente, con controlli di sicurezza ridotti al minimo.
Ma al di là degli aspetti tecnici e delle responsabilità specifiche, una cosa è certa: non può esserci alcuna tutela né valorizzazione del nostro patrimonio se non si tutela prima di tutto il lavoro di chi lo conserva e lo protegge, e se non si mette in primo piano la sicurezza e la dignità del lavoro.