
Introduzione
È attualmente in corso di discussione in Parlamento la quarta legge di bilancio del governo Meloni. Una manovra di appena 18,7 miliardi di euro, con uno dei più bassi importi mobilitati negli ultimi dieci anni. Fornirà un irrilevante impulso alla crescita. Secondo le stesse stime del governo, il PIL reale crescerà di appena lo 0,7% nel 2026. I pochi decimali di crescita saranno esclusivamente dovuti alle ultime risorse del PNRR. Ciò è ancora più grave se si considera la stagnazione dell’economia italiana degli ultimi anni e la crisi, oramai strutturale, del modello di accumulazione e di sviluppo in Europa.
Eppure, la questione principale non è neppure solo questa. Uno dei punti fondamentali è che questa manovra incarna pienamente la torsione conservatrice delle politiche fiscali europee. Se, da un lato, la legge di bilancio risulta condizionata dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita, dall’altro, le nuove regole di austerità fungono da leva politica per liberare risorse di bilancio a favore dell’economia di guerra.
Il risultato è che il peso della spesa per investimenti pubblici (strade, ferrovie, ospedali, scuole, università, ricerca, etc…) viene significativamente ridotto. La tanto decanta politica di «risanamento dei conti pubblici» prospettata dalla maggioranza, è resa possibile solo grazie ad una ulteriore redistribuzione a favore dei profitti e della rendita. Ad aumentare sono solo le risorse a favore delle imprese e, soprattutto, quelle per i settori della difesa. Se si considera l’insieme delle voci di bilancio, per il 2026 le risorse a disposizione per la sola spesa militare diretta arriverebbero complessivamente a 33,9 miliardi di euro circa, con un incremento del 2,8% rispetto all’anno precedente.
Questa è solo una parte degli incrementi per la spesa militare e, neppure, quelli più importanti. La strategia di fondo della manovra, infatti, è quella di recuperare margini di bilancio allo scopo di richiedere prossimamente il ricorso al Security Action for Europe (SAFE). Il nuovo strumento finanziario europeo istituito per sostenere gli investimenti nella difesa, che complessivamente vale 150 miliardi di euro, di cui l’Italia potrebbe ricevere 14,9 miliardi. Il SAFE sarà finanziato grazie all’emissione di obbligazioni sui mercati finanziari e le risorse saranno trasferite agli Stati membri sotto forma di prestiti garantiti dal bilancio europeo.
Questa manovra non riordina solo la spesa a favore della difesa e della sicurezza. Sono complessivamente gran parte delle materie di bilancio ad esser orientate dal «regime di guerra globale». L’«economia di guerra», in realtà, è anche un potente motore di disciplinamento della società: le politiche per la maternità, quelle per l’inclusione e la parità di genere, le politiche di contrasto alla povertà fino alle politiche di sviluppo, sono tutti ambiti attraversati condizionati da questo nuovo orizzonte di guerra.
Principali disposizioni in materia fiscale
Secondo i dati dell’ILO negli ultimi diciassette anni i salari reali italiani hanno accumulato la perdita più elevata nell’ambito dell’economie avanzate del G20, con una contrazione pari a -8,7%. La pesante «crisi salariale» italiana non ha pari in Europa. In questo quadro, così grave, il governo introduce alcune misure fiscali, del tutto inadeguate ad invertire la tendenza. La misura più sbandierata riguarda la riduzione dell’aliquota IRPEF nello scaglione 28-50 mila euro, che passerebbe dal 35% al 33%. Il limitato effetto redistributivo di questa riforma sarà del tutto inadeguato a compensare il pesante “drenaggio fiscale” che ha contribuito a decurtare i redditi da lavoro – principalmente quelli del ceto medio – erosi negli ultimi anni dall’inflazione.
Insieme a questa misura, la novità molto rilevante è che il governo Meloni, attraverso la legge di bilancio, interviene di fatto direttamente sul delicato sistema della contrattazione collettiva nazionale. Sistema che continua a manifestare gravi segni di sofferenza e di inefficacia. Solo per fare un esempio a fine settembre, secondo l’Istat, poco meno della metà dei dipendenti (43,1% pari a circa 5,6 milioni di persone) aveva un contratto collettivo scaduto. Qual è la logica del governo?
La legge di bilancio al momento prevede un’imposta sostitutiva al 5% per gli incrementi retributivi dovuti all’attuazione di rinnovi contrattuali (del 2025-2026), limitato, però, ai soli redditi lordi inferiori a 28 mila euro. La maggioranza sostiene di incentivare in questo modo la contrattazione collettiva. CISL e UIL hanno espresso un forte apprezzamento per questa disposizione, che ha lo scopo evidente di strizzare l’occhio ad un rinnovato sistema «neo-corporativo» delle relazioni industriali. Tanto è vero, proprio questi due sindacati chiedono che tale beneficio vada solo a vantaggio dei rinnovi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Confindustria, dal canto suo, si unisce al loro coro, chiedendo semmai di rendere strutturali gli incentivi fiscali per non generare incertezze per le imprese che vorrebbero beneficiare delle medesime agevolazioni anche per gli anni futuri.
Noi pensiamo che incentivare il sistema di contrattazione a regole invariate, ovvero, senza introdurre una legge sul salario minimo intercategoriale, significa non avere nessuna chance di correggere la grave crisi salariale italiana e i problemi crescenti di povertà lavorativa. Per giunta si tratta di una misura limitata nelle risorse e nei potenziali beneficiari. È anche grazie all’attuale modello di contrattazione, ereditato dalla stagione di riforme degli anni Novanta, che registriamo nel nostro paese l’inesorabile contrazione dei redditi da lavoro. Al contrario, per incentivare la contrattazione, oltre all’introduzione di un salario minimo per via legislativa, servirebbe dotarsi di regole automatiche di indicizzazione dei salari pubblici e privati, soprattutto nell’attuale congiuntura dell’economia di guerra.
Il governo Meloni, per assecondare anche in questo caso le richieste di Confindustria e di CISL e UIL, contrariamente ai principi di equità sbandierati sulla stampa, intende intervenire principalmente sulle componenti accessorie del salario: quelle meno coperte dall’inflazione e che non incidono sui cumuli previdenziali a fine carriera. Infatti, la manovra prevede per il 2026-27 una decurtazione dell’imposta sostitutiva per i premi di risultato o di partecipazione agli utili di impresa (che arriverebbe al 1%), mentre il limite agevolabile salirebbe da 3 mila a 5 mila euro annui. Accanto a questo, in maniera piuttosto perversa, sono spacciate come misure di garanzia del potere di acquisto incentivi che sembrano avere l’unico scopo di aumentare le forme di sfruttamento. A solo titolo di esempio, nel documento si trovano misure fiscali a favore delle maggiorazioni corrisposte in relazione al lavoro notturno o quello svolto nei giorni festivi e di riposo.
Infine, la manovra dispone la modifica alla disciplina fiscale e dei buoni pasto elettronici incrementando da 8 a 10 euro il valore monetario non imponibile. Si tratta di una misura spot, che nelle intenzioni dovrebbe sostenere il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori del settore privato. Tuttavia, l’aumento non è automatico: la decisione di innalzare effettivamente l’importo resta infatti rimessa alla volontà del singolo datore di lavoro. Per quanto riguarda il settore pubblico, la norma non produce effetti concreti. Infatti, non viene modificato il limite di spesa che fissa ancora a 7 euro il valore massimo dei buoni pasto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Tale limite è stato introdotto dall’articolo 5, comma 7 del decreto-legge n. 95/2012 (Spending Review), convertito dalla legge n. 135/2012, e continua a vincolare tutte le amministrazioni pubbliche. Persistono inoltre alcune criticità già note: solo una parte dei lavoratori beneficiano dei buoni pasto (circa 3,5 milioni di lavoratori complessivamente, di cui circa 700.000 dipendenti pubblici), e il valore del ticket risulta insufficiente a coprire il costo reale di un pasto, che negli ultimi anni ha subito aumenti significativi.

Principali disposizioni di sostegno al reddito
Assegno di inclusione – ADI
Nel 2023 le politiche pubbliche di contrasto alla povertà in Italia hanno vissuto un radicale cambiamento: dal Reddito di cittadinanza (RdC), in vigore dal 2019, si è passati a due distinte misure: l’Assegno di Inclusione (AdI) e il Supporto Formazione Lavoro (SFL). La riforma non ha puntato a rafforzare il sostegno, superando i limiti del RdC, ma ha scelto di ridefinire i criteri di accesso basandosi sulla composizione familiare anziché sul livello di povertà. La scelta di una categorialità familiare al posto di una misura di welfare universale ha fatto sì che l’Italia sia l’unico paese europeo senza uno schema di reddito minimo, risultando inoltre la più distante dagli obiettivi della Raccomandazione UE del 2023.
Per quanto riguarda l’AdI, la normativa vigente prevede una durata massima della prestazione pari a 18 mesi. Al termine di questo periodo, è possibile presentare domanda di rinnovo per ulteriori 12 mesi, ma l’erogazione riprende solo dopo un mese di sospensione obbligatoria. La nuova disposizione contenuta nella manovra elimina tale sospensione, consentendo ai nuclei beneficiari di continuare a percepire la prestazione senza soluzione di continuità, anche in occasione dei successivi rinnovi. La soppressione del mese di sospensione comporta un maggior onere finanziario. Tuttavia, l’intervento è compensato da significativi tagli al Fondo per il sostegno alla povertà e per l’inclusione attiva (dal 2026 al 2034); riduzioni che arrivano ad un fondo già inadeguatamente finanziato. Dopo l’abolizione del RdC il governo Meloni riduce dunque gli investimenti anche sulla misura che lo ha sostituito, l’Assegno di Inclusione, che peraltro presenta un carattere fortemente categoriale. L’intenzione di riservare alle famiglie con figli, con over sessantenni, con persone con disabilità o non autosufficienza una protezione particolare ha come primo risultato ridotto il numero complessivo di beneficiari: si calcola che tra il 40% e il 47% di percettori di RdC abbia perso il diritto di ricevere l’AdI, la platea dei beneficiari risulta sostanzialmente dimezzata rispetto al RdC, nonostante l’aumento registrato dei livelli di povertà assoluta. È sempre più evidente che il passaggio dal RdC all’AdI ha aumentato la disuguaglianza economica, incidendo negativamente proprio sulle famiglie più povere.
Carta «Dedicata a te»
La disposizione prevede il rifinanziamento del Fondo per l’acquisto di beni alimentari di prima necessità, pari a 500 milioni di euro per ciascuno degli anni 2026 e 2027, destinato alle famiglie in condizione di povertà estrema. Il sostegno è erogato tramite l’emissione della social card “Carta Dedicata a Te” ed è finalizzato all’acquisto di beni alimentari di prima necessità da parte di nuclei familiari con un ISEE non superiore a 15.000 euro e con tutti i componenti regolarmente registrati all’anagrafe.
La misura consiste in un contributo economico una tantum per nucleo familiare, dell’importo complessivo di 500 euro, erogato attraverso carte elettroniche. Il contributo non è cumulabile, infatti, non è riconosciuto ai nuclei familiari che comprendano percettori di altre misure di inclusione o sostegno al reddito — quali assegno di inclusione, reddito di cittadinanza, carta acquisti, ecc. — erogate a livello nazionale, regionale o comunale, né a coloro che ricevono prestazioni di disoccupazione o integrazioni salariali.
Il giudizio complessivo sulla misura “Dedicata a Te” non può che essere estremamente negativo, in quanto si tratta di un intervento una tantum, concepito come un residuale sostegno di ultima istanza solo per una parte limitata del bacino di famiglie in povertà assoluta, con un focus specifico sull’emergenza alimentare. È una misura che — come altri interventi analoghi — mostra limiti significativi in termini di efficacia, non affrontando un problema che in Italia ha ormai natura strutturale. Nel 2024, infatti, ISTAT ha recentemente stimato, che siano oltre 2,2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, per un totale di 5,7 milioni di individui, il 9,8% dei residenti. Oltre ad essere un contributo insufficiente si segnala l’assenza di un meccanismo di rivalutazione automatica dell’importo rispetto all’inflazione.
Ammortizzatori sociali
La manovra di bilancio non introduce novità di rilievo, limitandosi a prorogare per tutto il 2026 alcune misure già previste in deroga alla normativa vigente. La relazione tecnica non attribuisce effetti finanziari aggiuntivi alle disposizioni in esame, poiché gli stanziamenti necessari sono coperti attraverso le risorse del Fondo sociale per occupazione e formazione, già disponibili a legislazione vigente.
Gli interventi di integrazione salariale prorogano misure e corrispondenti autorizzazioni di spesa introdotte negli ultimi anni, tenendo conto delle condizioni congiunturali di specifici settori in cui, nel corso del 2025, si è registrato un crescente ricorso agli ammortizzatori sociali a causa delle numerose crisi aziendali e occupazionali. Tali interventi concernono l’indennità per i lavoratori della pesca e dei call-center, l’integrazione al reddito per i dipendenti ex-Ilva, il trattamento straordinario di integrazione salariale per le imprese che operano in aree di crisi industriale complessa, o che cessano l’attività, o coinvolte da processi di riorganizzazione o di crisi aziendale, o che stipulano contratti di solidarietà, nonché per le imprese di interesse strategico nazionale.
Tuttavia, al di là del semplice rifinanziamento, che andrebbe peraltro rafforzato, non si riscontrano interventi di carattere strutturale sulla disciplina degli ammortizzatori sociali. Il cosiddetto “pacchetto ammortizzatori”, pari a circa 400 milioni di euro a valere sul Fondo sociale per occupazione e formazione, secondo la Corte dei Conti richiede un attento monitoraggio, affinché l’attuazione dei nuovi interventi non comprometta la realizzazione delle misure già previste dalla normativa vigente.

Principali disposizioni in materia di famiglia e di pari opportunità
I 12 articoli che riguardano Famiglia e Pari opportunità possono essere, per approssimazione, raggruppati in tre macrocategorie.
Famiglia e Genitorialità:
Si tratta di misure che, attraverso bonus una tantum, sussidi, decontribuzione (per i datori di lavoro) e una irrisoria integrazione al reddito, non affrontano il tema della disuguaglianza strutturale di genere, dell’autonomia economica delle donne, della redistribuzione della cura in famiglia e nella società, irrigidendo invece i ruoli familiari, istituzionalizzando il lavoro di cura come appannaggio delle donne e cristallizzando la segmentazione verso il basso dell’occupazione femminile. Trasferimenti di soldi (pochi), al posto di politiche di investimento e sviluppo.
Misure per la famiglia e le pari opportunità che appaiono contraddittorie anche rispetto alla tanto decantata natalità “necessaria” al Paese, poiché le scelte riproduttive sono guidate principalmente dall’indipendenza economica, da un’occupazione di qualità e dalla presenza di servizi che garantiscano la redistribuzione della cura. Le stesse donne/madri/lavoratrici cui questo capitolo di spesa è rivolto restano intrappolate all’interno di lavori poveri, bloccate nelle carriere lavorative e in meccanismi strutturali che impediscono il miglioramento delle condizioni economiche.
Si tratta di politiche per madri, con almeno due figli (ancora meglio se tre), “doti” appetibili per le imprese (decontribuzione), che contribuiscono al reddito familiare (bonus mamme), tuttavia lavorando meno dei bread winner maschi, perché devono liberare tempo per prendersi cura della famiglia (part-time agevolato, aumento delle giornate di congedo e di malattia bambini), all’interno di un modello di conciliazione vita personale-vita familiare esclusivo, non redistribuito e non socializzato. Essenzialmente non retribuito.
Welfare familiare:
Le risorse stanziate a favore del welfare familiare (offerta socioeducativa, fondo caregiver familiare) sono irrisorie e non sufficienti. Anche l’agevolazione dovuta alla parziale riforma dell’ISEE sulle scale di equivalenza e sull’abitazione principale si basa su un meccanismo selettivo e non universale di accesso alle prestazioni.
Piuttosto, il contributo per il sostegno abitativo dei genitori separati/divorziati – positiva e tardiva misura di welfare – appare un po’ demagogica (orientata maggiormente alle istanze organizzate dei “padri separati”) e rischia di opacizzare le cause profonde della disparità economica tra uomini e donne già all’interno della famiglia, che nella fase di separazione si acutizza.
Sostegno a categorie specifiche di vulnerabilità:
Il positivo rifinanziamento e potenziamento di misure di contrasto alla violenza e alle discriminazioni (Reddito di Libertà, Fondo anti-tratta, Fondo politiche pari opportunità) risulta poco adeguato, non solamente perché non strutturale e per l’esiguità delle risorse dedicate, ma anche perché è di corto respiro, non agganciando il tema dell’autonomia abitativa e lavorativa e, quindi, la conseguente indipendenza economica delle persone che vorrebbero proteggere.
Zona economica speciale (ZES unica) e principali misure in favore delle imprese
La legge di bilancio (Misure in materia di assunzioni a tempo indeterminato) introduce un esonero parziale dalla quota dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, per un periodo massimo di 24 mesi, in relazione alle assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale effettuate tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2026. Il limite di spesa previsto è pari a 154 milioni di euro per il 2026, 400 milioni per il 2027 e 271 milioni per il 2028. La finalità dichiarata dalla disposizione è quella di incrementare l’occupazione giovanile stabile, favorire le pari opportunità nel mercato del lavoro per le lavoratrici svantaggiate, sostenere lo sviluppo occupazionale della Zona Economica Speciale per il Mezzogiorno (ZES unica) e contribuire alla riduzione dei divari territoriali.
Ancora una volta si interviene a sostegno dell’occupazione delle categorie maggiormente esposte a condizioni di fragilità – giovani, donne e lavoratori del Mezzogiorno – esclusivamente attraverso una riduzione del costo del lavoro per le imprese, ricorrendo a misure temporalmente limitate. Come avvenuto negli ultimi anni, si confermano politiche per il lavoro basate essenzialmente sull’incentivazione fiscale: una strategia che, privilegiando gli effetti di brevissimo periodo rispetto a interventi di medio-lungo respiro, ha già ampiamente dimostrato una scarsa efficacia nel raggiungere gli obiettivi prefissati, soprattutto in un tessuto produttivo frammentato e complesso come quello italiano.
Per quanto riguarda le principali misure a sostegno delle imprese, la manovra recepisce in larga parte le indicazioni di Confindustria, prevedendo incentivi agli investimenti per una media di 2,3 miliardi di euro l’anno nel triennio, secondo quanto riportato dalla Banca d’Italia nell’Audizione preliminare.
La manovra introduce un nuovo super-ammortamento — con una maggiorazione del costo di acquisizione fino al 220% per gli investimenti effettuati nel 2026 e 2027 — rivolto ai beni materiali e immateriali che finora hanno beneficiato dei crediti d’imposta previsti dalle misure Transizione 4.0 e 5.0, in scadenza a fine anno. Confindustria esprime inoltre particolare apprezzamento per la proroga fino al 2028 del credito d’imposta per la ZES Unica del Mezzogiorno, che accoglie pressoché integralmente una sua proposta. La manovra prevede infatti l’estensione del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nella ZES Unica, già introdotto dalla legge di bilancio 2024, con un tetto di spesa pari a 2,3 miliardi nel 2026, 1 miliardo nel 2027 e 0,8 miliardi nel 2028. Il credito sarà inoltre cumulabile con altri incentivi alle imprese, tra cui l’iper-ammortamento. Nel complesso, la manovra recepisce gran parte delle richieste di Confindustria, distribuendo incentivi fiscali senza però delineare una strategia di politica industriale di medio-lungo periodo.
Principali disposizioni in materia di previdenza sociale
La manovra proroga fino al 31 dicembre 2026 la sola APE Sociale e introduce un modesto incremento delle pensioni minime per i soggetti in condizioni di maggiore fragilità, senza rinnovare Quota 103, Opzione Donna e i canali agevolati per i lavoratori precoci. La norma conferma l’impostazione ormai consolidata delle ultime Leggi di bilancio: nessuna riforma strutturale, ma un ulteriore irrigidimento del sistema pensionistico, volto a ridurre la spesa pubblica.
Il risultato sarà un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento e assegni più ridotti. La scelta di non sospendere l’automatismo legato alla speranza di vita conferma l’indirizzo del governo: un progressivo aumento dei requisiti, che allontana sempre di più il traguardo della pensione. Dopo anni di annunci sul blocco degli adeguamenti, la manovra conferma che dal 1° gennaio 2027 il requisito salirà di un mese e dal 2028 di tre mesi.
L’innalzamento dell’età pensionabile produrrà ripercussioni sul mercato del lavoro, determinando un’ulteriore rigidità nel ricambio generazionale e la prosecuzione dell’attività lavorativa anche da parte di soggetti che, come gli addetti a mansioni usuranti o gravose, incontrano maggiori difficoltà nello svolgimento del loro lavoro.
Infine, la manovra in materia di previdenza prevede un rafforzamento degli investimenti in infrastrutture da parte delle forme pensionistiche complementari, introducendo la possibilità per i fondi pensione di investire in strumenti finanziari emessi da società ed enti attivi nella progettazione o realizzazione di interventi nei settori infrastrutturali turistici, culturali, ambientali, idrici, stradali, ferroviari, portuali, aeroportuali, sanitari, dei servizi pubblici immobiliari non residenziali, delle telecomunicazioni – incluse quelle digitali – nonché della produzione e del trasporto di energia. Un’evoluzione che, di fatto, interviene sulla crescente finanziarizzazione della previdenza.
Immagine di copertina di Gabriele Campanale.