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Rinnovato il CCNL Cooperative sociali – Un commento per punti

12 February 2024 |  Clap
Sciopero Oepac

Ben quattro anni ci sono voluti per rinnovare uno dei CCNL più controversi del mercato del lavoro, quello delle cooperative sociali. Un contratto segnato da paghe basse in molti livelli di inquadramento, in un settore già segnato da problemi “sistemici”. Timidi passi in avanti sono stati fatti ma siamo ancora molto lontani dal raggiungimento di paghe e condizioni di lavoro dignitose. Lavoratrici e lavoratori del privato sociale erano e restano lavoratori poveri.

Dopo circa cinque anni di vacanza contrattuale è stato “finalmente” sottoscritto il nuovo CCNL cooperative sociali. I tre principali sindacati confederali e le centrali cooperative lo hanno annunciato con toni trionfalistici, parlando di accordo storico, che garantirà aumenti percentuali inediti sulla paga base, l’introduzione della quattordicesima mensilità, l’aumento di livello per gli educatori e le educatrici professionali. Ma è davvero così storico il risultato ottenuto? Per certi versi sì, ma in negativo.

L’elemento che risulta più incomprensibile è l’assenza di qualsiasi forma di compensazione per il ritardo nel rinnovo del contratto, scaduto nel 2019. Nessun una tantum è stato stanziato in favore di lavoratrici e lavoratori, rimasti per cinque anni con i salari al palo, salari tra l’altro tra i più bassi del mercato del lavoro italiano, non solo tra i livelli retributivi più bassi. Nonostante questa sia una prassi più che consolidata per i rinnovi che avvengono in ritardo non è stata ritenuta una priorità in questo caso.

Passiamo agli aumenti tabellari. Il tanto sbandierato aumento complessivo pari a 120 euro, parametrato sul full time del livello C1 (percentualmente un aumento del 12%), è sì un aumento cospicuo se preso in senso assoluto, decisamente insufficiente se contestualizzato. Innanzitutto l’inflazione degli ultimi anni, in particolare derivante dalla crisi pandemica e dal contesto di guerra globale, fa sì che questo aumento non copra nemmeno la metà della perdita di potere d’acquisto. Inoltre andrà a regime in due anni, con tre tranches progressive.

Menzione d’onore merita anche l’introduzione della quattordicesima mensilità. Inizierà a maturare dal 2025 e poi, come se non bastasse, sarà conteggiata sul 50% della retribuzione mensile. La ratio di questa operazione ancora non ci è chiara, come anche quella del riconoscimento del livello D2 per educatori ed educatrici professionali, ma solo a partire dal 2026. L’ennesima beffa per chi ha conseguito un titolo, molte volte a proprie spese, e continua a non veder riconosciuta la propria professionalità.

Vengono poi ampliate le figure professionali presenti nei mansionari, mossa che allude ad un allargamento delle esternalizzazioni dei servizi, consegnando al mondo degli appalti al massimo ribasso nuovi pezzi di welfare pubblico, sempre più eroso in favore di una gestione privatistica, più orientata al profitto che alla cura del benessere sociale.

Infine segnaliamo l’adeguamento al 100% della maternità obbligatoria, cioè quella prevista per i 5 mesi fissati dalla legge. Un riconoscimento che ci sembra quantomai dovuto, il famoso “minimo sindacale”, anche se ci preme sottolineare come questo sia un settore dove l’astensione dal lavoro per le donne incinte molto spesso ecceda l’obbligo di legge: contesti di lavoro a rischio fanno sì che moltissime donne si vedano obbligate a chiedere la maternità anticipata, per la quale l’unico paracadute economico resta l’indennità INPS.

Per tirare qualche somma possiamo iniziare dicendo che, senza dubbio, avevamo basse aspettative. Nonostante questo alcune delle scelte prese in fase di contrattazione le deludono comunque. Un settore che incarna l’essenza del working poor avrebbe bisogno di un cambio di passo di tutt’altro spessore, altrimenti rischia di svuotarsi in breve tempo.

I problemi sono molteplici e non solo di natura contrattuale. Alcuni, peraltro al centro delle mobilitazioni degli ultimi mesi che si sono sviluppate a Roma, li potremmo definire sistemici: gli enti gestori dei servizi che stilano regolamenti per poi disattenderli (vedasi il taglio della retribuzione in caso di assenza degli alunni beneficiari nella scuola), la difficoltà delle cooperative nel garantire l’intero monte ore previsto dai contratti individuali, i recuperi in servizi con una retribuzione più bassa, in barba ai principi basilari del diritto del lavoro, gli spostamenti con mezzo proprio, il lavoro gratuito di preparazione delle attività, l’abuso del part time, l’utilizzo del part time ciclico verticale per i servizi legati alla scuola, che lascia molte operatrici e operatori senza retribuzione nei mesi estivi.

Se a questi aggiungiamo le paghe basse, le condizioni di lavoro faticose, l’incertezza del sistema degli appalti, la svalutazione di alcune figure professionali non ci deve stupire che l privato sociale venga considerato un settore “di passaggio”, dal quale fuggire quanto prima, appena si riesce a trovare di meglio. È impensabile considerarlo “il lavoro della vita”, oggi ancora di più. Mentre la barca affonda, lenta e inesorabile, l’orchestra delle centrali confederali e cooperative continua a suonare, incurante del disastro che nel frattempo diventa sempre più grave.