Focus

La ricetta è sempre la stessa: fai merenda… con il lavoro (vivo)

L’Articolo 93  del DL “Rilancio” interviene nuovamente sul contratto a tempo determinato, cancellando la timida revisione imposta dal Decreto “Dignità”. Già liberalizzato dal DL Poletti, primo atto del Governo Renzi, il contratto in questione torna a non avere più bisogno di “causale”, ovvero il datore di lavoro e l’impresa non devono più chiarire quali esigenze congiunturali impongono il carattere temporaneo dello stesso. A seguire, l’affondo in merito dell’avvocato delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Alessandro Brunetti.

Siamo entrati nella più grave crisi dal dopo guerra a oggi, tanto da far sembrare quella del 2008 una vacanza alle Maldive. In America già si contano più di 38 milioni di disoccupati. Da noi questo dato è in parte mitigato dal temporaneo divieto di licenziare per giustificato motivo oggettivo (a fine agosto si riapre la “caccia al lavoratore”) che ha riguardato solamente coloro che avevano un rapporto di lavoro formalizzato (subordinato e a tempo indeterminato) e in parte è stato falsato dal fatto che non si contano i milioni di lavoratori in nero, a termine scaduto, autonomi (finti o reali) che di fatto sono stati “licenziati” e hanno visto il colpo interrompersi qualunque forma di accesso al reddito.

Sia dalle prime avvisaglie che durante la fase più acuta della pandemia, Confindustria ha lottato con tutte le sue fameliche forze per ritardare il lockdown e – una volta imposto dalle migliaia di morti (una strage che ha colpito soprattutto poveri, precari, lavoratori autonomi, operatori sanitari ed anziani relegati nelle strutture residenziali) – ha premuto ogni giorno per la riapertura. Davanti a questo scenario pandemico, attraverso i  media viene richiesto a gran voce il denaro dentro fuori e contro i parametri di Maastricht. Ma sempre nella solita direzione dettata dai dogmi neoliberali scolpiti nella pietra della storia: dallo Stato alle imprese. Poco o nulla per la persona nella sua dignità calpestata (e magari ammalata per aver dovuto lavorare schiacciata dal bisogno).

Pronunciare ‘reddito di cittadinanza’ si può, ma nella sua declinazione incondizionata è una bestemmia. Io ti do i soldi, se poi vai a morire di infarto per fatica nelle campagne; altrimenti puoi tranquillamente morire di fame. Il Corriere della Sera lancia i suoi anatemi dalla dorata e scorrevole punta delle penne più blasonate: sarebbe “assistenzialismo” e quindi inaccettabile “dipendenza dalla politica”, invece occorre far ripartire il motore produttivo dando i soldi ai padroni. Peccato che negli ultimi trent’anni di tutta la benzina dragata da questo motore, solo una piccolissima parte è stata impiegata negli investimenti e quei pochi che effettivamente ci sono stati sono avvenuti nelle amatissime aree speciali, nei paradisi del lavoro schiavistico. Questo però per le suddette blasonatissime penne non è assistenzialismo, no eh? Non alimenta il perpetrarsi di quel furto plateale che da anni opera il capitale in danno alla vita stritolata tra il lavoro e il non lavoro? No. Il male è l’assistenzialismo. La rendita e la finanziarizzazione che specula anche sulla pandemia invece è cosa buona e giusta.  Lo scenario che si profila è quello di una guerra tra i pochi contro i tanti subalterni, che tra loro si accoltellano cercando di non far salire a bordo gli ultimi tra gli ultimi. Una storia già vista e cavalcata da sguaiati operatori senza scrupoli né coraggio.

Purtroppo le ricette in campo sono le solite, le stesse del “pizzino” della BCE e al Governo Monti: liberalizzare il mercato del lavoro (ricattare chi lavora sempre di più e pagarlo sempre di meno).

In che altro modo ciò avverrà, lo si può prevedere leggendo tra le moltissime righe del Decreto Rilancio  (Dl. 34/2020) dove all’Articolo 93 viene consentito di non indicare la causale nella proroga  o nel rinnovo dei contratti a termine in corso di esecuzione alla data del 23/02/2020.

Per capire il senso di questa operazione siamo costretti a fare un breve riassunto delle puntate precedenti:

  • il contratto a termine sin dal 1962 prevedeva che il termine poteva essere apposto a un contratto solo a fronte di una domanda temporanea (proprio per la gravissima ricattabilità in cui si trova un lavoratore in attesa di rinnovo con l’orologio della scadenza appesa al collo);
  • Nel 2014 il ministro del lavoro Poletti (già presidente della Lega delle Cooperative, che un tempo venivano definite “rosse”) del Governo Renzi (il Governo che con il Jobs Act è riuscito – tra l’altro – a abolire l’Articolo 18 dello statuto dei lavoratori, sfondando proprio dove Berlusconi aveva miseramente fallito) ha introdotto una piena liberalizzazione: si può assumere a termine per il più stabile dei lavori purché non si superino i 36 mesi. Lasciando però la possibilità ai datori di accedere a un nuovo ciclo, limitandosi a cambiare le mansioni e ai sindacati di aumentare il limite massimo passando da 36 a 48 a 59 mesi… a 102 anni;
  • Davanti a questo abominio e dopo una campagna elettorale dove si prometteva ai cittadini di restituire i diritti calpestati dal Jobs Act, con il Decreto sedicente “Dignità”, è stata prevista la possibilità di assumere senza causale (e quindi con il massimo gradiente di ricatto) solo per il primo contratto, per poi invece obbligare il datore di lavoro a indicare la “causale” per il rinnovo o per la proroga superiore ai 12 mesi. Ciò al fine di limitare la marea degli abusi che costituivano la regola della stragrande maggioranza dei contratti

Bene. Adesso si ritorna ad una sostanziale liberalizzazione della proroga o del rinnovo del contratto a termine. Ci si potrebbe chiedere perché mai? Che relazione c’è tra il diritto ad un lavoro stabile e la crisi che molte aziende effettivamente stanno patendo? Certamente non l’incertezza della ripresa che potrebbe essere una causale di legittima apposizione del termine.

La risposta è semplice: l’iper-sfruttamento – come forma di violenza – rende il lavoro maggiormente produttivo. Non rompi le palle se non hai i dispositivi di protezione, se i turni di lavoro sono massacranti, se ti pago la metà di quanto ti devo e se ti inquadro dodici livelli contrattuali sotto quelli di spettanza. Da una parte si abbatte il costo del lavoro, perché per la paura di perdere l’occasione del rinnovo non esigi il rispetto dei diritti; dall’altra lavori a ritmi umanamente insostenibili per lo stesso identico motivo. Insomma è la solita vecchia storia di sempre: per far ripartire il motore, si buttano i corpi dentro la fornace. E tutto ciò non è più accettabile.

Una sola domanda appare sensata: quando ripartirà il conflitto?

Ora è il tempo: «Questo è il tempo vero… Ora che hai la sorte in mano» (Elettra, Sofocle).