Focus

Sul palco, in bilico e senza rete

24 November 2017 |  Clap Roma

Il lavoro dello spettacolo, in Italia. Precario, sotto-pagato, senza protezioni

:: Da qualsiasi angolazione si guardi quel composito universo chiamato “mondo dello spettacolo”, le sue condizioni economiche, produttive e contrattuali, sembrano essere vaghe come le stelle dell’Orsa.

Veniamo al settore dello spettacolo dal vivo, in particolare al teatro visto che è l’ambito in cui chi scrive lavora e che conosce meglio. Gli antefatti sono noti: tra i più clamorosi i tagli drastici al FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, in pratica la totalità dei contributi erogati annualmente dallo Stato per cinema, danza, musica, teatro lirico e di prosa) portati avanti da più o meno tutti i governi degli ultimi vent’anni, soppressione dell’ETI (Ente Teatrale Italiano, quello che gestiva, tra gli altri, il Teatro Valle).

Ma cosa significa concretamente lavorare in questo settore ora come ora? A quali condizioni lavorative e contrattuali si va incontro? Anzitutto è necessaria una premessa. Il sistema teatrale italiano, che vive in larga parte, è il caso di ricordarlo, grazie ai fondi pubblici (come praticamente tutte le attività artistiche, diverse in questo da quelle artigianali) è stato riformato in tempi relativamente recenti (durante l’ultima
legislatura).

Tale settore, che assorbe una percentuale tutto sommato abbastanza piccola del FUS (circa il 16%, a fronte del 18% del cinema e del ben più cospicuo 47% delle fondazioni liriche), è stato ristrutturato in questo modo: gli enti più grandi e che producono il maggior numero di spettacoli sono i Teatri Nazionali, solo sette in tutta Italia; vi sono poi i TRIC (teatri di rilevante interesse culturale), categoria in cui sono stati “declassati”; tutti gli ex Teatri Stabili che non sono riusciti ad accreditarsi come Teatri Nazionali (e che prendono quindi minori contributi), questi dovrebbero essere dei teatri con vocazione produttiva territoriale e specifica; infine i centri di produzione che dovrebbero essere luoghi destinati alla ricerca e votati al sostegno delle compagnie anche giovani, ma spesso vengono destinati a tale categoria teatri che non riescono a rientrare nel novero dei TRIC. Per fare degli esempi, il Teatro di Roma (Argentina e India) è un teatro nazionale, lo Stabile delle Marche, dell’Umbria o di Genova sono dei TRIC, il Teatro Vascello è un centro di produzione. Ci sono poi tutte le compagnie, di teatro o di danza, che riescono ad ottenere il sostegno del MIUR e ad accedere quindi ai fondi ministeriali, al prezzo però di dover rispettare determinate condizioni piuttosto restrittive (come dover per forza fare un elevato numero di produzioni e soprattutto di repliche ogni anno, motivo per cui molte compagnie s’industriano a trovare escamotage per dimostrare date che in realtà non hanno mai fatto), fatto che porta molte realtà anche di livello importante a preferire l’indipendenza produttiva cercando di volta in volta partner pubblici come co-produttori piuttosto che rischiare di legare mani e piedi alla propria ricerca artistica.

Le condizioni contrattuali e lavorative possono variare a seconda di quale di queste realtà ci assume, e a seconda dell’incarico che noi svogliamo. Essendo chi scrive fondamentalmente un attore, è questa la casistica che affronteremo più nello specifico. In linea di massima il contratto di scrittura (cioè quello che un teatro o una compagnia propone ad un attore) è, o almeno dovrebbe essere, una forma di lavoro dipendente a tempo determinato. Esiste un CCNL spettacolo, rinnovato nel 2008, che fissa i compensi minimi giornalieri per tutte le figure dello spettacolo dal vivo, quello degli attori è 65,00 euro lordi (circa 52 netti). La prassi comune, ormai anche in luoghi importanti come i Teatri Nazionali, è di contrattualizzare gli attori per meno giorni rispetto a quelli in cui effettivamente si lavora. Il discorso è semplice: il lavoro ha bisogno di tot giornate per essere completato, ma i soldi che possiamo darti sono sono questi, sufficienti per assumerti solo alcuni giorni. Se è vero che c’è molto spesso una parte di lavoro che viene prestata gratuitamente, questo assume connotati più drammatici nel caso dei giovani, i cosiddetti under 35 su cui l’ultima riforma insiste molto. Infatti, i Teatri Nazionali ed altri enti pubblici sono stati fortemente incoraggiati ad inserire under 35 all’interno delle loro produzioni, ma questi sono stati assorbiti spesso con criteri fortemente differenziati rispetto ad altri lavoratori, ad esempio creando delle scuole di alta formazione in seno a tali enti che, se da una parte forniscono ai giovani delle occasioni di entrare in contatto con realtà importanti del teatro italiano e con maestri della scena, dall’altra creano un bacino di riserva di forza lavoro altamente qualificata che viene impiegata semi-gratuitamente all’interno delle produzioni (spesso vengono riconosciute solo le giornate di spettacolo ma non quelle di prova). Si sono persino arrivate a creare alcune situazioni in cui, sullo stesso palcoscenico, la scena era condivisa da due attori dei quali uno era contrattualizzato e l’altro no in quanto quello stesso lavoro era per lui considerato formazione.

Veniamo poi al caso delle compagnie, queste, che non hanno praticamente altra forma costitutiva che quella dell’associazione culturale, si trovano di fronte a una spesa esorbitante per poter assumere e contrattualizzare un attore, tra oneri contributivi (Ex-Enpals), assicurativi e quant’altro questo arriva a costare alla compagnia più del doppio di quello che poi effettivamente si ritroverà in busta paga. Tale spesa, se è già onerosa per i grandi enti pubblici, per le compagnie finanziate dal FUS o per le grandi compagnie di teatro private (musical, commedie commerciali) è difficilmente sostenibile per le compagnie indipendenti, anche quelle di elevato livello artistico e affiancate da co-produttori importanti, che si trovano spesso a dover fare dei veri e propri salti mortali per poter pagare i propri attori, rinunciando talvolta a retribuire il proprio organico di base. La scena indipendente nuda e cruda, quella lontana dai circuiti artistici o economici principali, versa fondamentalmente nell’anarchia totale e si regge spesso sul lavoro volontario.

Non sono infrequenti forme di lavoro nero che, purtroppo, talvolta al lavoratore stesso appaiono convenienti a fronte degli oneri contributivi elevati che sembrano non dare nulla in cambio (pensioni, malattia, tredicesima eccetera). È probabilmente su questi elementi di welfare (sostenibilità della vita anche nei periodi di minore lavoro, possibilità di continuare a studiare e aggiornarsi, non dover contare solo sulle proprie risorse se ci si ammala), che bisognerebbe lavorare e insistere per sollevare un po’ la qualità della vita e del lavoro di chi opera in questi settori, essendo attività che per la loro stessa natura hanno carattere intermittente e discontinuo (anche ad alti livelli), e che attori, performer figure affini, avendo sempre dei contratti molto brevi (raramente raggiungono un mese) si vedono spesso negate anche delle cose basilari come poter scegliere il medico della mutua in una città dove non si è residenti (serve un contratto di almeno tre mesi), e che il tipo di mondo in cui ci si muove è da sempre estremamente frammentato e difficilmente sindacalizzato e sindacalizzabile in senso tradizionale.

Come anche in altri settori, recentemente si è assistito all’espandersi del fenomeno della richiesta di aprire partite IVA da parte dei teatri agli attori, fondamentalmente per sgravarsi di oneri contributivi, pratica che non è per nulla conveniente ai lavoratori che si trovano gravati da ulteriori oneri svolgendo un’attività che comunque ha invece i caratteri del lavoro dipendente.