Focus

Pandemia e mercato del lavoro: pagano i precari

11 September 2020

Il rapporto ISTAT sul mercato del lavoro diffuso stamane racconta in modo inequivocabile i primi drammatici effetti della crisi generata dalla pandemia. Come previsto, pagano i precari, tanto con contratti a tempo determinato (non rinnovati) che autonomi poco affluenti. Più precisamente i giovani, le donne, i migranti. A seguire il commento puntuale di Daniele D’Ambra delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario.

Una crisi sanitaria pagata sul piano occupazionale in primo luogo dal lavoro precario, in particolare donne, giovani e migranti.

Questo emerge dalla lettura del rapporto sul mercato del lavoro diffuso oggi dall’ISTAT relativo al secondo trimestre del 2020, ossia i mesi del lockdown. A fronte del prevedibile calo dell’occupazione dovuto alla chiusura di tutte le attività non essenziali, una lettura più capillare dei dati mostra chiaramente come questa non abbia colpito in modo uniforme il mondo del lavoro e ovviamente a farne le spese siano state le figure meno garantite.

Il dato più eclatante riguarda proprio i contratti di lavoro a termine: di 841mila occupati in meno (-3,6% su base annua) ben 677mila sono contratti a termine (-21,6%), di cui il 63% sotto i sei mesi, seguiti dai lavoratori indipendenti in cui rientra il cosiddetto popolo delle “finte partite IVA” (-219mila occupati, – 4,1%).
Il blocco di molte attività e la forte diminuzione di ore lavorate (-20% rispetto al 2019) ha portato alla mancata proroga o trasformazione dei contratti a tempo indeterminato, così come la mancata assunzione dei lavoratori stagionali che, come consuetudine, riguarda proprio il semestre in questione.

A ulteriore conferma si possono citare alcuni dati scorporati: rispetto al trimestre precedente sono tre i settori che hanno subito il calo più drastico, ossia quello turistico (ristorazione/alloggio -16,1%), quello legato ai servizi domestici alle famiglie (-16,7%) e il lavoro in somministrazione (-15,5%). Mentre tra i lavoratori indipendenti si registra un calo delle collaborazioni del 22% rispetto al 2019. Citando il rapporto a perdere il lavoro sono stati “camerieri, baristi, cuochi, commessi ed esercenti delle vendite al minuto, collaboratori domestici e badanti; tra le poche professioni in crescita si segnalano i tecnici programmatori o elettronici e gli addetti alle consegne

Quando la crisi bussa alla porta i sacrificabili sono sempre gli stessi, o sarebbe forse meglio dire le stesse.
Cresce infatti il divario di genere (-4,7% donne, -2,7% uomini), ancor più la differenza tra italiani (-1,5%) e stranieri (-5,5%). Basti pensare che per quanto riguarda i servizi domestici alle famiglie il calo riguarda circa sette volte su dieci donne con cittadinanza straniera.

Allo stesso modo riguarda in particolare le giovani. Nella distribuzione per genere e fasce di età infatti i due valori più alti riguardano le donne tra i 20 e i 24 anni (-6%) e quelle tra i 24 e i 30 anni (-4,8%), calando drasticamente nelle fasce successive di oltre tre punti percentuali.

Nell’analizzare questi dati occorre considerare che in questo trimestre il settore privato ha beneficiato di circa 330 ore di CIG ogni 1.000 ore lavorate. Si può quindi dire che se i numeri non sono ben più consistenti ciò è dovuto al blocco dei licenziamenti e all’enorme sforzo pubblico a sostegno delle imprese. Le quali, per bocca di Bonomi, chiedono oggi al governo la possibilità di tornare a licenziare e una netta riduzione dei sussidi assistenziali a favore di nuovi aiuti a loro destinati. Una proposta, davanti allo scenario descritto dal rapporto, che andrebbe considerata una pura provocazione se non venisse proprio dal Presidente di Confindustria. E che ha probabilmente bisogno di una determinata risposta da parte di chi la crisi la sta pagando davvero per evitare che la provocazione si trasformi in realtà.