Fin dall’inizio della breve ma combattiva storia che ci riguarda, il lavoro sanitario è stato al centro delle nostre fatiche organizzative. Un settore decisivo, quello della cura, a maggior ragione con l’invecchiamento della popolazione; una eccellenza del welfare europeo, da un trentennio sottoposto all’aggressione neoliberale, fatta di New Public Management, appalti, privatizzazione vera e propria.
Nel 2017 Cergas Bocconi – dunque non trattasi di fanzine antagonista – ha fornito i numeri alle inchieste giornalistiche più avvertite, molte di questi giorni, fotografando il declino italico. Dal 1997, infatti, l’Italia ha perso 100mila posti letto; attualmente ne ha 3,2 per mille abitanti, a fronte dei 6 della Francia e degli 8 della Germania. Tra il 2012 e il 2017, più nello specifico, sono stati soppressi 759 reparti ospedalieri (meno 5,6 per cento). D’altronde in Italia vengono spesi 119 miliardi l’anno per la Sanità, il 20 per cento in meno di quanto si spende in Inghilterra, il 34 per cento in meno della Francia, il 45 per cento in meno della Germania; negli ultimi 10 anni sono stati tagliati 37 miliardi e sono previsti ulteriori tagli fino al 2022. L’emergenza dunque è arrivata prima del Coronavirus, e adesso è drammaticamente esplosa. Le zone rosse e le scuole chiuse non indicano lo ‘stato di eccezione’ del giurista tedesco (nazista non pentito) Carl Schmitt, ma il tentativo di tamponare frettolosamente, e con misure fin qui insufficienti, le falle strutturali del nostro Servizio Sanitario.
Mancano posti letto e attrezzatura, indubbiamente, a esempio per la terapia intensiva – decisiva per battere il Coronavirus. Ma i numeri rivelano un’altra emergenza, quella del personale: sono 50mila gli infermieri che mancano all’appello, 56mila i medici. Se in Italia ci sono 5,6 infermieri per ogni mille abitanti, nel Regno Unito sono 7,9, in Francia 10,5, in Germania 12,6.
La lista, che potrebbe allungarsi, non tiene poi in conto le condizioni di chi lavora nella Sanità pubblica. Ai dipendenti stabili, mediamente anziani e in costante diminuzione (negli ultimi 10 anni, 42.800 in meno), si accompagnano da anni i precari, tempi determinati o illeciti rapporti di collaborazione (spesso con partita Iva). Ai precari, pur sempre in rapporto diretto con ospedali e ASL, si aggiungono gli esternalizzati attraverso Cooperative: una parte di loro sono stabili, un’altra illecitamente precari. Se dal contratto si passa al salario, si scende drammaticamente il vertice della piramide: manager strapagati che, nel segno della corporate governance, dispongono delle pubbliche casse come se fosse capitale privato; dipendenti stabili con diritti e garanzie dei bei tempi andati; precari in diretto rapporto contrattuale con l’ospedale o la ASL che costano poco e lavorano senza sosta, in attesa anche 15-20 anni di essere stabilizzati; i dipendenti di Cooperativa che vivono nel panico ogni qual volta l’appalto scade e che, a parità di mansione e responsabilità, percepiscono la metà del dipendente pubblico loro collega; i precari delle Coop, l’ultimo gradino, che sopravvive mettendo assieme tre o quattro lavori. Ma scendendo negli inferi, ovvero raggiungendo la base della piramide, non possiamo dimenticare la Sanità privata accreditata: far west del lavoro precario e sottopagato, tra i lussi dei padroni d’azienda che ormai combinano posti letto in convenzione e investimenti finanziari, salute e ristorazione, e chi più ne ha più ne metta. Tanto, le Regioni che dovrebbero controllare, non lo fanno o lo fanno poco, perché il giro di affari è troppo grosso.
Voi direte: e i sindacati confederali? Risposta educata: boh…
In tutto ciò non c’è nulla di casuale o, peggio, di inevitabile. Non è lo Stato autoritario, ma il neoliberalismo che ha investito il Welfare State del secondo Novecento, imponendo alla politica tutta, di destra come di sinistra, di non rompere le scatole e di mettersi al servizio del mercato e del suo “corretto” funzionamento. E imponendo ai cittadini costi che, col Servizio Sanitario Nazionale conquistato in Italia – bene ricordarlo – nel 1978, pareva non spettassero più: anche in questo caso i numeri parlano chiaro, se la spesa pubblica in Sanità è di 119 miliardi l’anno, ammonta a ben 40 miliardi la spesa privata.
Chi come noi porta avanti con tenacia battaglie sindacali decisive al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori della Sanità pubblica e privata accreditata, afferma un concetto tanto semplice quanto rimosso, meschinamente occultato: la qualità del servizio e quella del lavoro funzionano assieme; senza l’una, non c’è l’altra. Ancora: il sistema sanitario è robusto se adeguatamente finanziato dalla fiscalità generale e se, nello stesso tempo, operatori e professionisti vedono rispettati i loro diritti, contrattuali e retributivi. Nel Lazio siamo riusciti, tra le mille fatiche imposte da un’impugnazione infausta, a far sì che chi ha lavorato in regime di esternalizzazione abbia un punteggio in più nelle procedure concorsuali. Battaglia di civiltà, grazie anche alla Consulta vinta. Ma non basta, ancora troppe le ingiustizie.
Sorprende, ma forse non dovrebbe, che sono state pochissime le voci a insistere su ciò che davvero conta – per sconfiggere il Coronavirus e in generale superare le emergenze sanitarie: un piano straordinario di stabilizzazioni del personale precario e di assunzione, con selezioni riservate, del personale esternalizzato. Lo facciamo noi, che lunedì 9 marzo avremmo dovuto partecipare allo sciopero contro la violenza di genere proclamato da Non Una Di Meno, sciopero reso impraticabile – come noto – dal divieto (di fatto) della Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali: siamo convinti che, tra i tanti gesti di responsabilità che non possiamo esimerci dal mettere in campo per sconfiggere il virus, ci sia quello di continuare a lottare perché il piano straordinario venga approvato in tempi brevi; e le strutture private messe a disposizione, gratuitamente (una giusta forma di restituzione), per sopperire alle troppe carenze di queste settimane. Più in generale, per permettere alla Sanità di uscire dallo stato di emergenza in cui versa da almeno venti anni; per garantire a milioni di persone in Italia, soprattutto le più povere, accesso alla prevenzione e alla cura.