Focus

Diritti sociali vs «sovranismo psichico»

10 December 2018 |  Paolo Scanga

Era la fine di settembre di quest’anno che il Ministro del Lavoro, affacciandosi al balcone di Palazzo Chigi, festeggiava la fine della povertà nel Paese. Quello che ci raccontano i dati usciti la scorsa settimana dall’analisi condotta dal Censis nel 52° rapporto annuale sulla condizione sociale del Paese è di ben altro tenore.

Nulla di particolarmente radicale e innovativo, per chi non vive nelle bolle mediatiche costruite dai ministri Salvini e di Maio. La fotografia che ci viene consegnata è quella di un’Italia sempre più impoverita, impaurita, più vecchia e, soprattutto, più incattivita. Gli autori della ricerca definiscono la fase attuale con il termine «sovranismo psichico», che aiuta a inquadrare il declino. Questo è il risultato della «cattiveria» che gli italiani provano, per riscattarsi dalla delusione per la mancata ripresa economica. Incattivimento che sempre più vede donne, migranti e giovani come bersagli principali.

Il quadro a tinte fosche tratteggiato vede un ulteriore aumento delle famiglie che si trovano in condizione di povertà assoluta, raggiungendo la somma di un milione e 793 mila persone, ossia il 6,9% della popolazione. Di questi, quasi un terzo sono stranieri. Troppo retorico chiedersi cosa succederà quando la mannaia della Legge Salvini entrerà a pieno regime.

Ad esso si deve aggiungere che il potere d’acquisto delle famiglie italiane è ancora inferiore del 6,3% in termini reali rispetto a quello di dieci anni fa. La sperequazione sociale ha fatto ulteriormente allargare la forbice nei consumi tra i diversi gruppi sociali. Nel triennio 2014-2017 le famiglie di estrazione operaia hanno fatto registrare un -1,8% in termini reali della spesa per i consumi, mentre quelle degli imprenditori raggiunge quasi un più sette per cento. Per capirci, fatta 100 la spesa media delle famiglie italiane, quelle operaie si posizionano a 72 (quattro punti in meno del 2014), quella degli imprenditori a 123 (erano a 120).

Drammatica è altrettanto la condizione giovanile lavorativa in cui riversa questo paese: i numeri sono agghiaccianti, nel decennio che va dal 2007 e il 2017 gli occupanti di età compresa tra i 25 e 34 anni, si sono ridotti del 27,3%. Nello stesso lasso di tempo gli occupati tra i 55 e i 64 sono aumentati quasi del 73%. In dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani laureati occupati ogni 100 anziani a 99. E nel segmento di lavoratori più istruiti i 249 laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani sono diventati appena 143. Mentre sono aumentati i giovani in condizione di sottoccupazione, nel 2017 erano 237.000 tra i 15 e i 34 anni, un valore raddoppiato rispetto a sei anni prima. Aumentano anche i giovani lavoratori con part-time involontario, che passano a 650.000 nel 2017, 150.000 in più rispetto al 2011. 330mila sono i giovani che lavorano, tra i 20 e i 29 anni, a rischio povertà, con un aumento di 10mila unità rispetto al 2016.

Esistono dei responsabili di questa catastrofe? Certamente. L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Pil, contro una media europea di quasi il cinque per cento. Tra il 2014 e il 2017 i laureati italiani di 30-34 anni sono aumentati di tre punti percentuali, passando dal 23,9 al 26,9%. Numeri comunque grandemente al di sotto della media dell’Unione europea che si attesta intorno al quaranta per cento. La spesa pubblica destinata in Italia alla ricerca, continua il Censis, è scesa da poco meno di 10 miliardi di euro nel 2008 a poco più di 8,5 miliardi nel 2017. Nel periodo è passata da 157,5 euro per abitante a 119,3 euro. Ma non è solo sul campo della istruzione e della formazione: rispetto al 2010 gli investimenti sono ancora all’89,4% del valore di allora, i consumi delle famiglie al 97,4%, la spesa delle amministrazioni pubbliche poco sopra al 99% e il Pil al 99,7%. Solo l’esportazione delle merci è aumentato. Siamo il 9° Paese esportatore al mondo, con una quota di mercato del 2,9% (il 3,5% se si considera solo il manifatturiero). Le imprese esportatrici sono oggi 217.431 (8.431 in più dal 2012).

Il commercio è florido, qualcuno si arricchisce e molto, ma d’altro canto in diciassette anni, il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. Anche l’Osservatorio sul precariato con i dati di settembre dell’Inps mostra come le assunzioni nel settore privato sono in aumento del 5,3%, rispetto l’anno scorso. Peccato che mentre i contratti a tempo indeterminato (che sono sempre a tutele crescenti, eh) cresce solo del +3,4%, i contratti a tempo determinato +4,7%, contratti di apprendistato +11%, contratti stagionali +4,6%, contratti in somministrazione +7,3% e contratti intermittenti +6,2%. Nessuna dignità nei contratti di lavoro, insomma.

Se, infatti, nei primi nove mesi dell’anno si conferma l’aumento delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (+124.562), che registrano un forte incremento rispetto al periodo gennaio-settembre 2017 (+45,7%). In contrazione risultano, invece, i rapporti di apprendistato confermati alla conclusione del periodo formativo (-17,6%). Le cessazioni nel complesso sono state 4.996.511, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+7,4%): a crescere sono le cessazioni di tutte le tipologie di rapporti a termine, soprattutto i contratti intermittenti e in somministrazione.

La situazione è catastrofica, ma nessuna sorpresa. Anni di attacco frontale al diritto del lavoro e al diritto di sciopero, assenze di investimenti privati e pubblici, totale de-finanziamento dell’istruzione e della formazione hanno portato alla situazione descritta. Non si può immaginare nessuna inversione di marcia e di tendenza se proprio questi temi non diventano il centro di un discorso politico che ribalti il «sovranismo psichico». Non c’è speranza se non nell’allargamento dei processi di sindacalizzazione, se non si rivendica un reddito di autodeteminazione e un innalzamento dei livelli salariali a favore delle fasce più deboli della società.