Focus

Il 4 di Marzo e l’urgenza di una marea sul reddito di base incondizionato

24 March 2018 |  Clap Padova

E fai l’analista di calciomercato

Il bioagricoltore, il toyboy, il santone

Il motivatore, il demotivato

La risorsa umana, il disoccupato

Perché lo fai?

[…]

Per un mondo diverso

Libertà e tempo perso

E nessuno che rompe i coglioni

Nessuno che dice se sbagli sei fuori.

 

Preludio. Meteore e nuovi scenari.

Nella storia recente italiana le elezioni politiche avevano assunto un significato non particolarmente rilevante. Almeno dieci anni di grandi intese nel nome dell’austerity avevano reso di fatto trascurabili i risultati elettorali, nonostante i tentativi costanti di rappresentare l’evolversi degli scenari politici come radicalmente trasformativi. Dalla caduta di Berlusconi al governo Monti, dalla velocissima ascesa alla rovinosa caduta della meteora Renzi, questi anni sono stati governati dall’idea che non ci fossero alternative e che il compito principale di un qualsiasi governo fosse quello di assecondare i dettami delle élites finanziarie e di garantire una stabilità politica indispensabile per rimuovere definitivamente i pochi elementi residui delle socialdemocrazie europee, quella italiana compresa. Sotto la coltre disorientante definita dalla crisi, grande mantello che giustifica tutto, la governance europea ha aggredito senza pietà gli istituti di mediazione che timidamente resistevano all’avanzare delle politiche economiche neoliberali. Welfare, relazioni industriali, mercato del lavoro, sistemi fiscali sono stati trasformati con una velocità senza precedenti, disegnando un quadro politico e sociale segnato dalla competizione, dalla precarietà e da gradi di povertà profondi e violenti. In questo contesto, raramente i movimenti europei sono riusciti ad arginare la violenza con cui le riforme hanno cambiato radicalmente il tavolo da gioco politico e sociale in cui si decide sulle vite di milioni di persone.

Le elezioni del 4 Marzo hanno segnato una trasformazione radicale dello scenario in cui i movimenti si trovano a presentare le proprie istanze rivendicative. Se da un lato ad uscirne con le ossa rotte sono proprio quei partiti che hanno garantito il riprodursi dell’austerity e delle sue forme di governo, dall’altro l’emergere della scelta elettorale che ha premiato la nuova Lega e il Movimento 5 Stelle costringe quel che resta dei movimenti italiani a ragionare in modo profondo sui possibili scenari e sulle nuove possibilità che la fase presenta. Utile dunque, in questo senso, provare a comprendere quel che è successo il 4 Marzo e nei giorni immediatamente successivi a partire dall’urgenza, sempre più chiara ed evidente, di mettere in discussione nel profondo le forme e le prassi organizzative entro cui le soggettività antagoniste si sono fino ad oggi definite. Pensiamo sia necessario non guardare a quel che è successo con uno sguardo esterno e auto-assolutorio, ma, al contrario, pensandoci coinvolti e profondamente messi in discussione dagli scenari politici che oggi si presentano davanti ai nostri occhi. A partire dalla nostra specificità di Sindacato Sociale che si interroga sulle forme più adatte per organizzare le battaglie e i conflitti nel confine sempre più labile tra lavoro e non lavoro, ci sembra che il dibattito sviluppatosi prima e dopo le elezioni sul tema del reddito di cittadinanza abbia avuto un peso specifico assolutamente rilevante rispetto agli esiti elettorali.

 

Il vecchio che muore e il nuovo che avanza.

La partita elettorale si è giocata su due temi privilegiati che hanno informato il dibattito pubblico degli ultimi anni: da un lato la questione migratoria con il suo portato polarizzante e dall’altro le questioni legate alla necessaria ridefinizione dei sistemi di welfare della provincia Italia. Se sul primo tema ampi settori di movimento si stanno interrogando in modo profondo, tentando di scardinare le narrazioni razziste e utilitariste che gran parte delle compagini politiche hanno proposto, sulla questione del welfare e delle nuove forme del lavoro che la accompagna, ci sembra che le capacità di analisi e di comprensione dei movimenti sociali siano tutt’oggi insufficienti.

Il primo dato importante da sottolineare è la sconfitta, pesante e potenzialmente fatale, proprio delle forze del “buon senso”, in primis il Partito Democratico di Matteo Renzi. Oltre ad aver pagato il costo della devastazione del diritto del lavoro italiano (Jobs Act), elevando la precarietà ad unica forma di relazione lavorativa del nostro paese (il diffondersi dei voucher e del lavoro gratuito ne sono solo un esempio), il PD non ha capito – o non ha voluto capire – la composizione del lavoro che nasce e si sviluppa all’interno del paradigma neoliberale. L’insistenza sugli aiuti alle famiglie, su misure assistenziali e caritatevoli per un numero marginale di poveri (ReI), il non comprendere le dinamiche biopolitiche che innervano le forme di vita precarie, sono state il primo motivo di incompatibilità tra la proposta politica renziana e la materialità delle vite di milioni di precari, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Di fatto il Partito Democratico ha scelto di rappresentare le elite finanziarie europee e gli ultrasessantenni italiani, quelli che faticano a comprendere la rivoluzione epistemologica che l’emergere della precarietà come paradigma riversa nelle vite delle nuove generazioni.

Dal canto loro le destre, in primis la Lega, hanno sviluppato un discorso che risulta essere tanto ambivalente quanto profittevole dal punto di vista del consenso elettorale. L’aggregarsi di forze populiste e razziste come la Lega e Fratelli d’Italia con Forza Italia e altri soggetti che potevano garantire all’Unione Europea alcune sicurezze dal punto di vista dei bilanci e del rispetto di alcuni paletti invalicabili hanno permesso alla coalizione di arrivare ad un risultato inaspettato e in ogni caso soddisfacente. Dal punto di vista economico, è stato il connubio tra proposte neoautarchiche e antieuropeiste e lo slogan “prima gli italiani” a costituire la proposta complessiva della coalizione delle destre. Nella dimensione paradossale del dibattito politico degli ultimi mesi, Berlusconi e Salvini sono riusciti a tenere insieme le rassicurazioni ai partner europei con la proposta leghista, mai davvero ritrattata, di uscita dall’euro. In questo contesto, lo slogan “prima gli italiani” ha assunto un significato molto chiaro: nel contesto di carenza di risorse in cui l’Italia si ritrova, l’organizzazione dei sistemi di welfare non è inefficace in sé, ma è la presenza di soggettività migranti che ne usufruiscono a costituire il problema principale dal punto di vista dei diritti sociali. Poco importa se questi lavorano e contribuiscono dal punto di vista fiscale alle casse del sistema previdenziale del paese. Le traiettorie di questa proposta, del resto, sono ben visibili nelle forme entro cui la Lega ha governato i territori in cui è da sempre maggiormente radicata, come il Veneto e la Lombardia. Inserire clausole che attestino l’italianità di un soggetto nelle graduatorie per case popolari e asili nido, affermare che la presenza massiccia di migranti nel mercato del lavoro italiano da un lato sottrae occupabilità per gli autoctoni e dall’altro è la causa dell’abbassamento del costo del lavoro, rivendicare nuovi muri e una radicalizzazione del controllo dei confini nazionali sono gli elementi cardine della capacità attrattiva delle retoriche utilizzate dai nuovi fascisti di questo paese.

In questo quadro, tuttavia, il dato che emerge con più forza è l’esplosione espansiva del Movimento 5 Stelle, che ha fatto del reddito di cittadinanza uno dei propri principali cavalli di battaglia.

 

I Cinque Stelle, il reddito di cittadinanza e le miopie di noi tutti.

Crediamo che per comprendere, seppur parzialmente, la vittoria schiacciante del Movimento Cinque Stelle sia necessario partire da un’analisi della composizione sociale che ha affidato alla compagine grillina la propria preferenza elettorale. Siamo convinti che chi da sinistra pontifica, con una certa vena elitista e classista, sull’ignoranza di chi ha votato Luigi Di Maio non solo sta continuando ad allontanarsi dal sociale che vorrebbe rappresentare, ma spinge ancor di più l’ago della bilancia politica italiana verso destra. A votare i 5S sono stati infatti giovani e giovani adulti tendenzialmente istruiti, nonché protagonisti delle relazioni sociali istruite dal mondo 4.0. Sono stati dunque precari, inoccupati, disoccupati, lavoratori autonomi, voucheristi, neet e “bamboccioni” lo zoccolo duro del 33% ottenuto dal partito di Di Maio, in un contesto in cui l’alta affluenza alle urne afferma in modo inequivocabile come a determinare le scelte dell’elettorato vi sia il tema della partecipazione e non quello del disinteresse. L’impressione è che, mentre le strutture parlamentari storiche si concentravano sulle lobby e sulla composizione più anziana del paese, i 5S accoglievano simbolicamente le rivendicazioni di quella composizione sociale condannata da sempre alla precarietà e alla povertà. In questo senso, la proposta del reddito di cittadinanza è stato il grimaldello con cui intercettare e sussumere le istanze sociali delle nuove forme del lavoro precario e autonomo. Basterebbe guardare all’ultimo evento della campagna elettorale pentastellata in Piazza del Popolo, con Beppe Grillo in persona che afferma come l’obbiettivo tendenziale dei 5S sarà il permettere ai cittadini di fare un referendum online ogni domenica per comprendere la capacità evocativa e il piano discorsivo su cui il consenso di questa forza populista si è strutturato (“Quando i cittadini avranno gli strumenti per fare un referendum alla settimana da casa, il Movimento potrà anche sciogliersi: noi siamo un movimento biodegradabile.”). La proposta di reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle, pur avendo il merito di aprire finalmente un dibattito trasversale su un tema per cui solo i movimenti sociali si sono spesi negli ultimi vent’anni, si presenta come uno strumento dispotico di controllo sociale, di abbattimento del costo del lavoro e di legittimazione definitiva di differenti forme di lavoro gratuito. L’idea è quella propria dei sistemi di workfare, un misto di UK con uno sguardo alla Germania dell’Hartz IV, in cui per avere accesso ai sussidi un soggetto deve accettare in modo coatto il lavoro che gli viene proposto, qualsiasi esso sia. In aggiunta, secondo i Cinque Stelle, chi avrà diritto ad accedere al reddito di cittadinanza dovrà mettere a disposizione almeno 4 ore alla settimana di lavoro gratuito al proprio comune di residenza, dovrà dimostrare di cercare lavoro almeno per due ore al giorno, dovrà presentarsi al centro per l’impiego almeno una volta alla settimana. Come in molti stanno sostenendo in questi giorni, la proposta si presenta come una misura ultraliberista in cui la povertà diventa una colpa da espiare e il diritto ad una vita dignitosa deve essere conquistato in cambio della disponibilità assoluta allo sfruttamento. In questo senso, il film “Io, Daniel Blake” di Ken Loach ci mostra, in modo tanto evocativo quanto violentemente verosimile, come gli effetti economici, sociali ed esistenziali dei sistemi di workfare producano delle conseguenze estreme in termini di stigmatizzazione sociale, di isolamento e di povertà diffusa.

Convinti che il tema del reddito abbia dato un forte contributo ai risultati dell’ultima tornata elettorale, rimaniamo sconcertati dal dibattito pubblico che si è sviluppato nei giorni immediatamente successivi alle elezioni. Dal 5 di Marzo, infatti, nel web e nei giornali mainstream, si è diffusa la voce che nel Sud Italia moltissime persone hanno preso d’assalto i Centri per l’Impiego richiedendo il reddito di cittadinanza promesso dai grillini durante la campagna elettorale. Quella che si è prodotta è secondo noi una narrazione tossica, entro cui tuttavia si aprono degli spazi importanti per i movimenti sociali e per le istanze di liberazione che questo scenario ci potrebbe consegnare. In molti, nel web, hanno ironizzato sull’ingenuità degli elettori del sud Italia nel credere alla presunta bufala del reddito di cittadinanza. Il tema che più spesso viene evocato è l’impossibilità di mettere in atto una misura distributiva a causa dell’assenza di capacità economiche e monetarie adeguate. Oltre a gerarchizzare in termini etici (lavoristi) gli elettori del Nord e del Sud, definendo i secondi come “fannulloni” e “ignoranti” e confermando l’atteggiamento elitario di una certa sinistra nonché dell’ormai imbarazzante sistema mediatico italiano, crediamo che questo piano discorsivo sia utilizzato innanzitutto per ribadire il concetto che in Italia non si possa e non si voglia immaginare la possibilità di inventare un nuovo welfare, per quanto questo possa essere proposto come una misura ultraliberale che, lungi dal liberare il sociale dalla precarietà e dalla povertà, lo condanna ad una vita di ricatti e di sottomissione alle regole del lavoro gratuito.

In tutto questo, i miseri risultati dell’unica compagine a cui va dato il merito di aver tentato di strutturare un piano discorsivo differente, cioè Potere al Popolo, hanno dimostrato chiaramente il carattere controproducente di una nostalgia per l’etica lavorista poco rintracciabile all’interno della composizione del lavoro vivo contemporaneo. “Lavorare tutti, lavorare meno” non solo non coglie il carattere immediatamente produttivo della riproduzione sociale, ma soprattutto non comprende le esigenze di un’intera generazione che vive la propria biografia professionale in una dimensione ormai strutturalmente segmentata e disarticolata.

Lo scenario per i movimenti dunque risulta completamente nuovo e proprio a partire dal nuovo protagonismo del reddito di cittadinanza all’interno del dibattito politico potrebbe aprirsi uno spazio di mobilitazione, da attraversare con tutta la nostra fantasia e il nostro desiderio.

 

Disarticolare la cittadinanza maschia, bianca e occidentale: un nuovo welfare per tutte e per tutti.

Nel panorama politico che la fase ci consegna dovremmo essere capaci di comprendere immediatamente quali traiettorie adottare per rispondere alla complessa situazione post-elettorale. Se certamente le alleanze artificiali a cui probabilmente assisteremo per la costruzione del nuovo governo saranno determinanti per immaginare ciò che ci aspetta, crediamo che non sia questa la direzione a cui rivolgere il nostro sguardo antagonista. Differentemente, è proprio la rottura cognitiva che l’emergere del tema del reddito di cittadinanza nel dibattito pubblico ci propone a riportarci a condensare le nostre energie militanti e organizzative su questo terreno. Nonostante le insidie che la proposta di Workfare dei 5S incorpora, pensiamo che quella che si presenta sia un’occasione da non perdere.

Basterebbe osservare la potenza che i movimenti femministi globali e la dirompente rottura che i processi migratori stanno portando nelle società occidentali per comprendere come sia lo stesso concetto di cittadinanza a cui la proposta di reddito pentastellata fa riferimento ad essere messo in discussione. L’idea di un sistema di welfare rivolta al cittadino bianco eterosessuale e pater familias che ha informato l’intero assetto sociale occidentale dal dopoguerra in avanti è completamente saltata di fronte alle insorgenze che donne e migranti stanno determinando ad ogni latitudine di questo mondo in subbuglio. È a questa altezza che, come i movimenti femministi e transfemministi come Non una di meno rivendicano, dovremmo immaginare la costruzione delle lotte a venire: strutturare una proposta di reddito incondizionato e per l’autodeterminazione di tutte e tutti potrebbe essere l’arma con cui affondare definitivamente la gerarchia intersezionale entro cui il diritto ad avere diritti viene ancora definito. In questo senso, dovremmo essere capaci di costruire degli spazi che se da un lato siano capaci di attrarre proprio quella composizione del lavoro vivo precaria e povera che ha costituito il bacino elettorale del Movimento 5 Stelle, dall’altro aiutino a decostruire definitivamente l’idea nostalgica di un mondo ordinato secondo le categorie binarie e gerarchizzanti di donna-uomo, lavoratore-disoccupato, autoctono-migrante.

Attaccare la proposta del workfare all’italiana mentre proponiamo una visione universalistica dei diritti sociali potrebbe fornire nuovo ossigeno a chi, senza tregua, mette a disposizione il proprio tempo, le proprie energie e i propri desideri alla trasformazione radicale del presente. In questo senso, una mobilitazione con vocazione maggioritaria per un reddito di base universale e incondizionato finanziato dalla fiscalità generale potrebbe contemporaneamente dare una spinta decisiva alle trasformazioni sociali che i movimenti delle donne stanno già determinando in tutto il mondo e respingere in modo definitivo i tentativi di segmentare la classe lungo la linea del colore. Dovremmo ripartire dal significato scandaloso che l'”assalto ai centri per l’impiego”, reale o presunto, ha prodotto nel discorso pubblico, risignificandolo del potenziale di rottura e di rivendicazione che porta con sé, e decifrando e valorizzando allo stesso tempo il sussulto di panico che ha scaturito nei residui di una sinistra ormai completamente avulsa dalla realtà. Quell’assalto ci parla, o potrebbe farci parlare, dell’espressione di un bisogno profondo a cui non servono molte parole per esprimersi, una pratica di rivendicazione che rappresenta anche la disaffezione radicale verso le politiche economiche e sociali degli ultimi decenni. In altri termini, forse grazie a questa crepa aperta involontariamente nella cornice di senso neoliberista, riprodotta indifferentemente da destra e da sinistra, possiamo intravedere nuove pratiche di connessione e ricomposizione possibili.

Se il 4 Marzo ci consegna un paese diviso, polarizzato sui temi del welfare e delle migrazioni, una marea sul reddito di base universale e incondizionato si presenta come necessità urgente e imprescindibile per chi, ostinatamente, non vuole cedere alla barbarie che bussa alle nostre porte.

CLAP – PADOVA