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Jobs Act: il disastro fatto e quello in corso d’opera

10 April 2014

1. Il Decreto legge 20 marzo 2014

E’ stato pubblicato il 20 marzo 2014 sulla Gazzetta Ufficiale , e quindi è operativo a tutti gli effetti, il decreto con cui il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 12 marzo, su proposta del Presidente Renzi e del Ministro del Lavoro Poletti), ha approvato disposizioni urgenti sul contratto a termine e sul contratto di apprendistato, a cui è stato aggiunto in extremis un articolo riguardante il rifinanziamento dello sgravio contributivo per i contratti di solidarietà per una somma complessiva di 15 mil. di Euro per l’anno in corso.

Del tanto roboante JOBS ACTC che doveva ridurre la precarietà e rilanciare l’occupazione, per ora non c’è che un atto di ulteriore liberalizzazione dell’accesso a queste due forme contrattuali che ne rende più precarie le condizioni di lavoro , intervenendo anche a diminuire le già misere retribuzioni degli apprendisti, e un intervento sulla documentazione di regolarità retributiva delle imprese (DURC), che rende meno stringenti i controlli e facilita le procedure per le aziende.

Ma vediamo più da vicino quali sono le novità introdotte e quali effetti avranno sui relativi rapporti di lavoro:

Il contratto di lavoro a termine

Per il contratto a termine viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della causalità. Ciò non vuol dire che obbligatoriamente i contratti a termine dovranno avere durata triennale (pericoloso eccesso di tutela verso il lavoratore!), bensì che per qualsiasi attività, settore merceologico e livello professionale sarà possibile stipulare contratti a termine della durata fino a 36 mesi senza dover minimamente motivare da parte dell’impresa le ragioni per cui si ricorre ad un rapporto a termine piuttosto che a tempo indeterminato.

Quindi si dilata a dismisura quell’offesa già operata dalla Fornero al principio secondo cui il “normale” rapporto di lavoro è a tempo indeterminato, tutelato anche dalla legislazione europea (Direttiva 1999/70/CE), ma indubbiamente considerato da “rottamare” da parte del nostro giovane governo. Infatti se ora le statistiche ci dicono che oltre l’80% dei nuovi rapporti avviene con contratti a termine, con questa innovazione indubbiamente il 100% sarà assicurato.

Inoltre il provvedimento renziano interviene a modificare in peggio altre due clausole della precedente normativa, quella relativa al periodo di interruzione minimo necessario per attivare un nuovo contratto a termine e quella del numero dei rinnovi possibili. Il primo viene abolito, quindi da oggi sarà reiterabile un contratto a termine senza soluzione di continuità e per le proroghe (la legge Fornero ne aveva concessa una sola) viene prevista la possibilità di attivarle fino ad un massimo di 8 volte entro il limite dei tre anni. Unica condizione posta è che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato.

Viene, infine, fissato il limite massimo, per i contratti a tempo determinato, del 20% dell’organico complessivo del datore di lavoro. Il decreto lascia comunque alla contrattazione collettiva la possibilità di ampliare tale limite quantitativo (che quindi può essere più ampio con modifiche pattuite anche solo a livello aziendale) con particolare riferimento alle esigenze connesse alle sostituzioni e alla stagionalità. Infine è previsto che le imprese che occupano fino a 5 dipendenti possono comunque stipulare almeno un contratto a termine. Con queste modifiche introdotte è evidente che il contratto a termine viene promosso come forma principale di nuova assunzione, con condizioni di frammentazione continua del rapporto (durante i primi tre anni di lavoro potresti essere licenziato e riassunto ogni 4 mesi!) con un effetto “ spada di Damocle” permanente sulla testa del lavoratore, e con esito quasi certo al termine dei tre anni (cessazione e avanti un altro!), altro che contratto a garanzie crescenti!

Il contratto di apprendistato

Per il contratto di apprendistato le modifiche introdotte non sono meno devastati. La giurisprudenza del lavoro e gli uffici vertenze dei sindacati sono affollati di casistiche che testimoniano come già oggi , questo contratto che avrebbe la sua ragione d’essere nella natura mista della sua finalità , che dovrebbe rappresentare un efficace strumento di intreccio tra formazione e lavoro, in effetti viene abusato dalle imprese come strumento esclusivo di sotto-salario, sotto-inquadramento e risparmio contributivo. Come argine all’abuso padronale di questa tipologia contrattuale erano state inserite nella disciplina del rapporto di lavoro alcuni obblighi per il datore di lavoro che lo impegnavano ad erogare la formazione al giovane, pena la possibile nullità del contratto di apprendistato e il diritto per il lavoratore a vedersi riconosciuto il diritto al contratto a tempo indeterminato dall’atto della stipula.

Ora, con un sapiente intervento chirurgico il decreto del governo Renzi interviene a modificare proprio quelle clausole, sicchè la finalità formativa diventa un requisito effimero. In primo luogo viene abolito l’obbligo a effettuare all’atto dell’assunzione la stipula in forma scritta del piano formativo individuale (che recava obbligatoriamente anche la qualifica di partenza e quella da conseguire a termine percorso e le modalità con cui veniva effettuato il processo formativo interno ed esterno all’azienda) ora invece si prevede il ricorso alla forma scritta per il solo contratto e patto di prova.

Inoltre viene abolita l’obbligatorietà della formazione cosiddetta “trasversale “ ovvero quella formazione , disciplinata dalle Regioni, svolta in forma interna o esterna alla azienda e finalizzata alla acquisizione di competenze di base e alla conoscenza della legislazione del lavoro e contrattuale per un monte complessivo non superiore a centoventi ore nel triennio.

E’ evidente che trattandosi dell’unica parte della formazione erogata non on the job, si trattava dell’unica parte di formazione contro la cui non ottemperanza l’apprendista poteva far ricorso per rivendicare la conversione del rapporto a tempo indeterminato e il riconoscimento delle relative differenze retributive. In questo modo senza piano formativo scritto e senza obbligo di formazione pubblica è evidente che la natura formativa del rapporto di lavoro viene completamente tradita e l’apprendistato ridotto a mero addestramento di mestiere, sottopagato.

Ad aggravare questo snaturamento dell’istituto concorre un’altra norma inserita nel decreto, per cui per la parte riferita alle ore di formazione (come e da chi verranno quantificate se la formazione si svolgerà solo durante lo svolgimento della mansione?) l’apprendista sarà retribuito al 35% della paga oraria del livello contrattuale di inquadramento (va ricordato che l’apprendista può già essere inquadrato fino a due livelli sotto al livello d’inquadramento previsto per la qualifica per cui è assunto).

Ma il nuovo decreto interviene a modificare anche un’altra norma che era quella che vincolava le imprese ad avviare nuove assunzioni di apprendisti solo a fronte della conferma a tempo indeterminato di almeno del 50% di quelli conclusi nel triennio precedente.

Cancellando completamente il comma che comprendeva tale previsione , il decreto nei fatti riduce l’apprendistato ad una sottospecie del contratto a termine, da cui si distingue per i vantaggi contributivi e per il minore costo del lavoro per le imprese, per la durata , che per le imprese artigiane può essere fino a 5 anni, non offrendo in cambio al giovane lavoratore sicurezza né di formazione, né di conseguimento della qualifica, né di stabilizzazione del rapporto di lavoro a termine del contratto stesso!

Smaterializzazione del DURC

Il DURC, documento unico di regolarità contributiva, è l’attestazione dell’assolvimento, da parte dell’impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di INPS, INAIL e Cassa Edile, che il datore di lavoro deve esibire per qualsiasi richiesta di accesso a finanziamenti e contributi pubblici, ivi compresi gli ammortizzatori sociali, nonché in caso di accesso ispettivo da parte degli ispettori del lavoro e del Ministero della finanza .

Il Decreto legge prevede ora la smaterializzazione del DURC (che significa non più l’obbligo a conservare in sede , in forma cartacea e certificata dagli Enti preposti, la relativa documentazione, ma prevede semplicemente l’accesso al fascicolo per via informatica), superando l’attuale sistema che impone ripetuti adempimenti alle imprese.

Dietro un intervento che si presenta finalizzato alla facilitazione e snellimento delle procedure burocratiche per le aziende, si può nei fatti ingenerare una prassi che rende meno trasparenti e cogenti i controlli da parte degli organi di vigilanza e verifica.

2. DISEGNO DI LEGGE DELEGA

Ma sempre nella seduta del 12 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha discusso e deciso anche le linee guida di un un Disegno di Legge Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia di lavoro, di riordino delle forme contrattuali e di miglioramento della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Del contenuto del futuro disegno di legge, che dovrà essere discusso i sede parlamentare e poi affiderà al ministro di turno l’ emanazione della concreta disciplina di riferimento , ci dà conto un lungo e articolato comunicato della Presidenza del Consiglio, che sfata alcune anticipazioni e battages pubblicitari che si sono diffusi sui media nei giorni e settimane precedenti, anche a seguito di dichiarazioni ad effetto dello stesso Renzi, primo tra tutti che il cosiddetto contratto unico a garanzie crescenti sarà alternativo alla pletora di forme contrattuali precarie oggi in uso, infatti il comunicato ufficiale parla solo di una” ulteriore”

Ma vediamo più da vicino i contenuti della politica renziana sul lavoro che il consiglio dei ministri ha definito.

Quelle che seguono sono le caratteristiche esplicitate nel comunicato ufficiale a cui sono allegate alcune nostre prime valutazioni (nel testo in corsivo e tra parentesi) che ne evidenziano i possibili rischi e le profonde ambiguità nella realizzazione successiva:

Delega in materia di ammortizzatori sociali

La delega ha lo scopo di assicurare un sistema universale per tutti i lavoratori che preveda, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale. A tal fine vengono individuati i seguenti

– rivedere i criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali escludendo i casi di cessazione aziendale (quindi in tutti i casi di fallimento, liquidazione, chiusura dell’attività aziendale, procedure concorsuali che non prevedano la prosecuzione di attività, per cui oggi si contrattano piani di investimento, rilancio produttivo e/o acquisizione da parte di terzi, programmi produttivi, il rischio reale è che i lavoratori siano semplicemente tutti licenziati);

– semplificare le procedure burocratiche anche con la introduzione di meccanismi automatici di concessione; (potrebbe portare al superamento delle procedure obbligatorie di consultazione sindacale e quindi perdita di qualsiasi sede di verifica preventiva per i lavoratori dei piani aziendali e delle loro ricadute occupazionali, nonché la possibilità di contrattare strumenti alternativi, quali riduzioni di orario e/o contratti di solidarietà);

– prevedere che l’accesso alla cassa integrazione possa avvenire solo a seguito di esaurimento di altre possibilità di riduzione dell’orario di lavoro (non viene tuttavia spiegato attraverso quali meccanismi si dovrebbe verificare che tutte le possibilità alternative sono state esperite);

– rivedere i limiti di durata, da legare ai singoli lavoratori ( rischio che anche nel caso della CIG, come è già avvenuto da tempo per le pensioni, prevalga un criterio di erogazione legato alla storia contributiva dei singoli);

– prevedere una maggiore compartecipazione ai costi da parte delle imprese utilizzatrici;

– prevedere una riduzione degli oneri contributivi ordinari e la loro rimodulazione tra i diversi settori in funzione dell’effettivo utilizzo;

– rimodulare l’ASpI ( la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla legge Fornero del 2012, che diventerà operativa a partire dal prossimo anno) omogeneizzando tra loro la disciplina ordinaria e quella breve;

– incrementare la durata massima dell’ASpI per i lavoratori con carriere contributive più significative (anche in questo caso la durata dell’indennità è collegata alla pregressa storia contributiva dei singoli, con buona pace per chi è stato sfruttato al nero, ha più periodi di precariato, è stato truffato dai propri padroni);

– estendere l’applicazione dell’ASpI ai lavoratori con contratti di co.co.co., prevedendo in fase iniziale un periodo biennale di sperimentazione a risorse definite (rimangono escluse le partite iva , le associazioni in partecipazione e tutte le altre forme di falso lavoro autonomo; nonchè gli studenti, gli stagisti, i dottorandi , i neet e tutti coloro che non hanno avuto un precedente rapporto di lavoro “in chiaro”, quindi non c’è traccia di un provvedimento universale contro la disoccupazione che vada a intervenire su tutte le diverse forme di disoccupazione e inoccupazione e sotto-occupazione e sfruttamento al nero, oggi dilaganti in particolare tra i giovani, ma non solo);

– introdurre massimali in relazione alla contribuzione figurativa (il criterio dei massimali contributivi rischia di essere un ulteriore penalizzazione per la pensione dei giovani e tutti coloro che hanno storie lavorative discontinue);

– valutare la possibilità che, dopo l’ASpI, possa essere riconosciuta un’ulteriore prestazione in favore di soggetti con indicatore ISEE particolarmente ridotto (sussidio di povertà!);

– eliminare lo stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a prestazioni di carattere assistenziale.

Delega in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive

La delega è finalizzata a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché ad assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

A tal fine vengono individuati i seguenti principi e criteri direttivi:

– razionalizzare gli incentivi all’assunzione già esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione (che vuol dire individuazione di soggetti “svantaggiati” su cui concentrare gli incentivi all’impiego: molto dipenderà dai criteri di definizione e dalla misura e cogenza degli incentivi);

– razionalizzare gli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità;

– istituire, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un’Agenzia nazionale per l’impiego per la gestione integrata delle politiche attive e passive del lavoro, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome e vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. All’agenzia sarebbero attribuiti compiti gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASpI e vedrebbe il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali. Si prevedono meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e l’Inps, sia a livello centrale che a livello territoriale, così come meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità (rischio che la partecipazione dei Sindacati alla definizione delle linee d’indirizzo di questa nuova Agenzia nazionale e alla sua gestione operativa, soppianti l’attuale sistema di contrattazione preventiva sui livelli occupazionali e le crisi aziendali);

– razionalizzare gli enti e le strutture, anche all’interno del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che operano in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive e servizi per l’impiego allo scopo di evitare sovrapposizioni e garantire l’invarianza di spesa;

– rafforzare e valorizzare l’integrazione pubblico/privato per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (principio che allude a riconoscimento e valorizzazione di un sistema misto di gestione del mercato del lavoro non meglio specificato per ruoli e funzioni e finanziamenti dedicati);

– mantenere in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali il ruolo per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantite su tutto il territorio nazionale;

– mantenere in capo alle Regioni e Province autonome le competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro;

– favorire il coinvolgimento attivo del soggetto che cerca lavoro;

– valorizzare il sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni.

Delega in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti

La delega punta a conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, a tal fine vengono individuati i seguenti principi e criteri:

– razionalizzare e semplificare le procedure e gli adempimenti connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del rapporto di carattere burocratico ed amministrativo; eliminare e semplificare, anche mediante norme di carattere interpretativo, le disposizioni interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali e amministrativi (tutti interventi che possono portare ad aumentare pratiche elusive da parte delle imprese nella gestione dei rapporti di lavoro ed indebolire la possibilità dei lavoratori di attuare strategie difensive e ricorrere alla giustizia ordinaria per le inadempienze subite);

– unificare le comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi (es. infortuni sul lavoro) ponendo a carico delle stesse amministrazioni l’obbligo di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti

– promuovere le comunicazioni in via telematica e l’abolizione della tenuta di documenti cartacei;

– rivedere il regime delle sanzioni, valorizzando gli istituti di tipo premiale, che tengano conto della natura sostanziale o formale della violazione e favoriscano l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita (a parità di costo); (tema particolarmente delicato che vuol dire rivedere l’intero sistema interventi ispettivi e di verifica sulla correttezza della gestione dei rapporti di lavoro e degli obblighi retributivi, contributivi, assicurativi e di prevenzione della salute da parte delle imprese, alleggerendo le sanzioni pecuniarie e inserendo invece un sistema premiale per i comportamenti conciliativi; il riferimento alla parità dei costi non potrà che comportare un forte indebolimento della rete degli ispettori del lavoro e della loro operatività sul territorio);

– individuare modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere, anche in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere burocratico e amministrativo connesso con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;

– revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino.

Delega in materia di riordino delle forme contrattuali

Nel testo del Comunicato della presidenza del Consiglio si legge che “La delega è finalizzata a riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto produttivo nazionale e internazionale” quindi nessuna allusione a diminuzione o cancellazione di forme o istituti contrattuali e nemmeno di riduzione della precarietà dei rapporti.

A tal fine vengono individuati i seguenti principi e criteri direttivi:

– individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il contesto occupazionale e produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di riordino delle medesime tipologie contrattuali;

– procedere alla redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti (eccolo qui il famoso “contratto unico” di inserimento a tutele crescenti: una ulteriore forma contrattuale da sperimentare in aggiunta e non in sostituzione di altre e di cui per ora non vengono neanche accennate le modalità, la durata, le tipologie operative a cui è destinato… tutto da consegnare alla delega del governo e al Ministro competente?);

– introdurre, eventualmente anche in via sperimentale, il compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali (anche in questo caso come per gli ammortizzatori sociali rimarrebbero fuori dalla sperimentazione tutte le forme di falso lavoro autonomo, che sono le nuove frontiere dell’abuso semilegale di rapporti di lavoro dipendente sotto mentite spoglie).

Delega in materia di conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali

La delega dichiara la propria finalità nell’obiettivo di contemperare i tempi di vita con i tempi di lavoro dei genitori. A tal fine vengono individuati i seguenti principi e criteri direttivi:

– introdurre a carattere universale l’indennità di maternità, quindi anche per le lavoratrici che versano contributi alla gestione separata ( si spera che almeno per la maternità le prestazioni siano riconosciute anche alle lavoratrici a partita IVA, alle associate in partecipazione e a tutte coloro che hanno

– garantire, alle lavoratrici madri parasubordinate, il diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (non è chiaro se questa clausola è estesa anche alle partite IVA, in quanto esse stesse sono responsabili dei versamenti effettuati);

– abolire la detrazione per il coniuge a carico ed introdurre il tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare (questa norma che sembrerebbe favorire la valorizzazione del lavoro femminile, rischia di essere un clamoroso boomerang a sfavore delle famiglie monoreddito, in quanto la detrazione per coniuge a carico viene attribuita oggi indipendentemente dalla presenza di figli e senza soglie di reddito, mentre la previsione del credito a favore delle donne lavoratrici verrebbe erogato solo alle madri di figli minori sotto una certa soglia di reddito, così si caratterizza più come un assegno assistenziale rivolto alle sole lavoratrici madri a basso reddito che come strumento di promozione dell’occupazione femminile in tutti i campi professionali e lavorativi. Va ricordato inoltre che causa il dilagare della crisi , della disoccupazione e di forme sempre meno garantite di rapporti di lavoro, si sta allargando la fascia di lavoratrici, con e senza figli, che percepiscono le detrazioni per il coniuge a carico avendo in marito e compagno disoccupato , che in questo modo si vedrebbero private di una parte del proprio reddito e non riconosciute nel ruolo di breadwinner);

– incentivare accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e l’impiego di premi di produttività, per favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti (attenzione al part time non volontario!);

– favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per la prima infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico – privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione del loro utilizzo ottimale da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi.

 

Insomma, un programma di interventi che di nuovo non ha proprio niente e che ripercorre la logica già segnata dai governi precedenti di spacciare per razionalizzazione le diminuzioni di controlli e verifiche sulla correttezza dei rapporti di lavoro, di restringere l’ambito di copertura degli attuali ammortizzatori, invece di allargarla, di promuovere forme spurie di nuovi rapporti di lavoro che invece che favorire la qualità del lavoro, ne peggiorano sostanzialmente le condizioni e offrono alle imprese nuove opzioni nel già ricco menù delle forme di precariato a disposizione.

Con buona pace del contratto a tempo indeterminato, dei processi di stabilizzazione del lavoro precario e dell’art. 18 di cui è rimasto ormai solo un pallido simulacro e di cui , comunque, il “rottamatore” ha fretta di disfarsi completamente!

 

* Barbara Pettine