Focus

Si chiama reddito è workfare

16 November 2013

di BIAGIO QUATTROCCHI*

E’ appena stata depositata al Senato una proposta di legge del M5S per istituire in Italia il “reddito di cittadinanza”. L’iniziativa ha avuto una notevole visibilità sui media mainstream e ha anche già stimolato la reazione stizzita del Sottosegretario all’economia Fassina: che si sà, fa ormai questioni di principio solo nei confronti di Maradona e dei grillini.

In effetti, non stupisce che il M5S sia riuscito a presentare questa proposta di legge. Nell’ultima campagna elettorale delle politiche, in diverse occasioni, avevano preso posizione a favore dell’introduzione di una forma di reddito di base. Così, diventa la seconda proposta che arriva alle Camere nel giro di pochi mesi, dopo una iniziativa di legge popolare che ha visto la partecipazione di alcune associazioni, partiti, ambiti di movimento.

La proposta del M5S, così come per alcuni versi, anche la proposta legata all’iniziativa di legge popolare, si muovono entrambe sul terreno di un welfare residuale, traducendo quella istanza di redistribuzione minima a favore dei più poveri e condizionando il sostegno al reddito ad un regime tipico del workfare. In queste brevi note mi concentrerò esclusivamente sulla proposta del “reddito di cittadinanza” del M5S, provando a leggere in controluce l’opportunità tattica dei movimenti, di sfruttare autonomamente e a proprio vantaggio le luci che ovunque si accendono su questo tema.

Diciamo subito una cosa. La proposta sembra essere lo specchio delle caratteristiche del M5S, con quella sua tendenza caratteristica ad inglobare dentro di sé istanze di diversa natura, incarnate in quell’universo liscio e formalmente neutro dei cittadini. Forse è semplicemente da questa mitologia del “buon cittadino” rispettoso della legge che deriva l’aggettivo “di cittadinanza” legato alla proposta di reddito di base – pensi che almeno così, sia stato risparmiato il riferimento a quella cittadinanza conflittuale, meticcia e trans-nazionale dei post-colonial studies, attorno a cui era avanzato inizialmente il progetto dei movimenti sociali del reddito di base. Invece, quello che sorprende più di ogni altra cosa in questa proposta è proprio il mix, solo apparentemente confuso e invece molto insidioso, di riferimenti teorici e politici di varia natura: c’è il vecchio Milton Friedman teorico del reddito minimo garantito alle origini del laboratorio politico neoliberale; c’è il suo amico Hayek, che si scagliava contro il welfare universale a la Beveridge, perché a suo dire aveva la colpa di infiacchire la tempra dell’homo oeconomicus; c’è la cultura dominante della teoria economica che non ha mai abbandonato la vecchia ipotesi della disoccupazione volontaria; ma c’è anche, molte delle istanze che sono provenute dai movimenti sociali degli ultimi anni (se non mesi): la lotta alla precarietà, il rapporto tra il reddito di base e il salario minimo orario, la questione del diritto all’abitare, il problema della povertà crescente, ecc… Se metti insieme tutte queste cose profondamente alternative, che succede? Succede, che finisce per prendere corpo un ordine del discorso in cui alcune istanze conflittuali nate dalla lotta dei movimenti di questi anni, vengono catturate e ritradotte per un altro fine. Significa che il tentativo di liberarsi – attraverso il reddito di base – da alcuni dei dispositivi di sfruttamento connessi al lavoro, all’accesso alla moneta, alle relazioni della riproduzione sociale, sono ritrasformati nei termini della libertà neoliberale dell’uomo-impresa. Vediamo perché.

 

A chi dovrebbe andare questo reddito, secondo il M5S?

La bozza prevede di istituire un dispositivo di garanzia del reddito “di ultima istanza” per i soggetti (maggiorenni e in età non pensionabile) che si collocano al di sotto della soglia di povertà relativa, che l’Istat attualmente stima, per un individuo solo e senza famiglia, intorno ai 7.200 euro netti l’anno. In questo modo verrebbe erogato un contributo monetario capace di portare i beneficiari appena sulla soglia di 600 euro netti al mese. Anche se è stata presentata come una misura individuale, nella realtà il vincolo familiare risulta molto stringente. Coloro che vivono in famiglia, hanno diritto alla misura solo se il reddito familiare complessivo si colloca al di sotto della soglia di povertà relativa, modulata secondo la numerosità del nucleo. Questa disposizione, evidentemente, rompe la dimensione individuale di questo diritto, subordinandola ad una rigida logica di welfare familiare.

Essendo una misura principalmente condizionata al reddito, non tiene conto né della posizione contrattuale del singolo nel mercato del lavoro (ne avrebbero diritto anche i lavoratori autonomi, con prescrizioni sul reddito parzialmente differenti), neppure del suo status di occupazione. Questa caratteristica potrebbe essere formalmente un elemento di vantaggio della proposta, ma tale disposizione perde di senso nel quadro complessivo del funzionamento della misura, facendo emergere i limiti del dispositivo normativo incapace di tener conto delle trasformazioni attuali del mercato del lavoro. Facciamo il caso di un precario con un contratto a progetto che perde il lavoro, ma ha guadagnato nello stesso anno un reddito netto appena superiore a quello stabilito. Ecco: questa persona, oltre a non aver diritto a questa misura, si troverebbe molto probabilmente senza altri strumenti di sostegno, come gli assegni di disoccupazione.

Nella bozza di legge sono previsti anche altri elementi di condizionalità, di cui non si comprendono i motivi, se non come riflesso di una ideologia dominata dal bisogno del controllo sociale. Che il rapporto tra i migranti e il M5S sia a dir poco problematico è cosa nota, e la misura non sembra fare eccezione. Il reddito è rivolto anche ai cittadini stranieri (residenti in Italia da 2 anni), purché nel biennio precedente alla richiesta abbiano lavorato almeno 1000 ore, oppure, guadagnato un reddito complessivo pari ad almeno 6 mila euro. Che senso hanno queste condizioni? Forse la fede nella legalità del M5S contrasterebbe con l’ipotesi (alquanto difficile) di fornire un sostegno al reddito a chi, poco tempo prima della richiesta, era in condizioni di clandestinità?

Andando oltre, si scopre un altro vincolo: per i soggetti tra i 18 e i 25 anni è necessario, tra le altre cose, che siano in possesso di un diploma superiore, o almeno devono dimostrare la volontà di completare gli studi secondari. Il senso di questa disposizione è bene leggerlo alla luce dell’obiettivo generale della misura (art.1, comma2), in cui l’«inclusione sociale» dei poveri deve avvenire con «[…] la promozione delle condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro e alla formazione attraverso politiche finalizzate al sostegno economico […]».

Non va sottovalutato questo passaggio, come altri che vedremo più avanti, perché aiuta a chiarire la filosofia di questa proposta. Milton Friedman, quando a metà degli anni Sessanta, formulò l’ipotesi del suo «soccorso ai poveri» aveva in mente due obiettivi economici e politici. Il primo obiettivo, era quello di contrastare il welfare keynesiano poiché appariva ai suoi occhi come una struttura coercitiva; che poi ha significato, essenzialmente, il fatto di rompere la possibilità di una riproduzione sociale, in alcuni casi, slegata dalla razionalità del mercato. Il secondo obiettivo, aveva a che fare con una “teoria della giustizia”; qui, il suo scopo era quello di includere i poveri nello scambio di mercato, grazie alla redistribuzione di una piccola quota di proprietà (o ricchezza in termini di moneta) a loro favore. Il trasferimento di moneta assumeva così la caratteristica di un «minimo hobbesiano», perché la funzione doveva essere quella di evitare la rivolta degli straccioni, di coloro i quali sono senza alcuna proprietà risultavano esclusi dalla “cooperazione di mercato”. Lungo il ciclo neoliberale, gli aspetti contenuti nella proposta friedmaniana sono andati intrecciandosi con la promozione del soggettivismo dell’homo oeconomicus, che ha avuto una enorme rilevanza nel processo di riforma della struttura del welfare in Europa e nella diffusione del workfare. Subordinare il diritto della riproduzione sociale all’obbligo di formazione, è solo uno dei possibili esempi, che ci aiuta a chiarire come intende muoversi questo dispositivo di welfare: creare le condizioni di attivazioni dell’individuo economico, includerlo nelle trame del mercato del lavoro, stimolando in lui quella razionalità operativa dell’uomo-impresa, lasciando che interiorizzi e singolarizzi le strade per uscire dalla povertà, magari formando – come vorrebbe la mitologia di Becker – quel «capitale umano» da vendere come merce sul mercato, da cui dipenderanno tutte le sue fortune.

 

La forte condizionalità al lavoro

Il punto ancora più problematico è la forte condizionalità al lavoro e più in generale l’obbligo di contropartita, che fa di questa misura a tutti gli effetti uno strumento di workfare. Il soggetto che fa richiesta del benefit deve, innanzitutto, dichiararsi disponibile a lavorare e a ricevere le proposte dai centri per l’impiego. Ma non basta, poiché si è anche obbligati a partecipare a progetti di volontariato sociale promossi dai Comuni di residenza. Il soggetto deve instaurare con i centri per l’impiego un rapporto serrato, presentandosi a colloquio almeno una volta alla settimana, accettando anche tutte le proposte che riguardano i percorsi di formazione professionale. Si decade dal diritto della misura, non solo quando risultano cessate le condizioni di reddito e fin qui, nulla di strano si potrebbe pensare; ma quando – cito testualmente: si sostengono «più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere esisto negativo». D’altro canto, ad un povero mica si può giustificare anche un atteggiamento poco accondiscendente?

Al di là delle disposizioni citate, la proposta in diversi passaggi, è imbevuta da una logica colpevolizzante, secondo cui la condizione di disoccupazione o di povertà dipendono in primo luogo da sé stessi. Bisogna impegnarsi, perché deve essere chiarothere isn’t free lunch, come diceva ancora una volta Friedman.

 

Una lotta che non finisce

Con alle spalle il 19 ottobre e i percorsi di lotta sul diritto all’abitare, la diffusione di pratiche di autorganizzazione di servizi in chiave mutualistica, è necessario che si riprenda collettivamente la discussione sul reddito monetario individuale. La crescente attenzione che si ha su questo tema è una buona occasione per riprendere il cammino. Non deve stupire neppure che le forze politiche istituzionali, e i governi nazionali in Europa, proveranno ad amplificare retoricamente l’attenzione sugli enormi guasti sociali prodotti dalla crisi. E’ probabilmente in atto un cambiamento interno alla stessa logica neoliberale di gestione della crisi: va compreso e utilizzato.

La prima urgenza è quella di collocare questa rivendicazione su una scala immediatamente europea. Chiedere l’erogazione di una anticipazione monetaria, slegata dal lavoro e fondata su un diritto assoluto alla riproduzione sociale, significa in primo luogo forzare il ruolo di indipendenza della BCE, la sua funzione istituzionale di disciplinamento del bilancio pubblico. La discussione su una moneta del comune, capace di riconoscere la cooperazione sociale, deve passare anche attraverso un ciclo di lotte attorno agli assetti del welfare. La separazione tra dimensione “assicurativa” e “assistenziale” del welfare, la prima finanziata prevalentemente con i contributi sociali, la seconda con la fiscalità generale, deve essere sapientemente messa in discussione in molte sue parti. L’insicurezza sociale è diventata un tratto antropologicamente connaturato nelle nostre esistenze, un controllo sulla nostra cooperazione sociale, sulla nostra capacità di autodeterminare le vite. Questa insicurezza non ha alcuna possibilità di essere alleviata attraverso gli strumenti “attuariali” del welfare assicurativo (come gli assegni di disoccupazione), ne tanto meno, attraverso un reddito di base rivolto esclusivamente ai più poveri. E’ il motivo per il quale, messo in discussione il confine tra questi due ambiti del welfare, dobbiamo richiedere che il reddito di base sia finanziato interamente dalla fiscalità generale: l’unico modo per aprire una redistribuzione del reddito sociale.

L’anticipazione monetaria oggettivata nel reddito di base deve poi svolgere un’altra funzione, quella di contrapporsi ‘politicamente’ alla anticipazione monetaria del salario, operata dalle imprese. Il reddito di base non può essere concepito come fa il M5S come un accesso al «diritto al lavoro» (quale lavoro? Quello precario e mortificante che conosciamo?); piuttosto deve essere uno strumento per amplificare la capacità di conflitto nel lavoro: sia chiaro, il lavoro vogliamo sceglierlo, è una volta scelto, vogliamo avere strumenti per favorire una soggettivazione contro le forme di organizzazione del lavoro stesso.

E’ quindi il confine tra lavoro e vita che ci interessa reinventare. Non esiste nessuna possibilità di lotta sul lavoro che non si ponga, contestualmente, il tema della sua relazione con la riproduzione sociale. Non esiste neppure nessuna possibilità di giocarsi questa lotta se ci si ostina a muovere i passi su uno spazio esclusivamente nazionale. E’ anche questo quello che intendiamo come apertura di un processo costituente dell’Europa post-liberista.

*tratto da DinamoPress.it