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Sei euro e novanta. Tutti i giorni, sette giorni su sette.

13 November 2020 |  Clap Padova

Sei euro e novanta. Tutti i giorni, sette giorni su sette. A questo ammonta la paga oraria dei lavoratori e delle lavoratrici impegnat* all’interno di una delle tante Cooperative che in questo momento di crisi sanitaria svolgono un fondamentale lavoro di cura che i servizi sociali gestiti da Comuni e Regioni “delegano” a soggetti privati. Soggetti, molto spesso, senza alcuno scrupolo, che fondano la loro missione sull’incremento degli utili a scapito dei/delle loro dipendenti. Riportiamo un testo redatto da un nostro iscritto che analizza in maniera profonda e lucida l’attuale condizione in cui versano centinaia di lavoratori/trici delle cooperative iscritte al libro paga di enti pubblici della Regione Veneto.

Una situazione non più tollerabile, alla quale è necessario rispondere con fermezza sul piano della mobilitazione sindacale e della costruzione di un percorso politico che permetta la definizione di un welfare dove i diritti dei cittadini e dei lavoratori/trici sono al centro.

Sei euro e novanta.
Tutti i giorni, sette giorni su sette.

Sono persone fragili, con disabilità cognitive e fisiche, con problematiche psichiatriche, con un bisogno perenne di supporto, di aiuto. Sono minori in situazioni complesse, dove le sfumature sono infinite e i vuoti spesso incolmabili. Sono anziani, migranti, senza fissa dimori. Minoranze improduttive. Spesso sole, senza una rete che in qualche modo possa loro rendere la vita meno complessa. Senza una casa che possa accogliere le loro ansie, le loro frustrazioni. Senza un lavoro, perché il mercato è troppo rapido per chi impiega mezza giornata ad avvitare un bullone, perché non c’è spazio per chi necessita di pause continue. Con un mondo attorno che fa ancora fatica, troppa fatica a vederle, rendendole invisibili e senza diritti o che, al contrario, le identifica con i sintomi, snaturandole di ciò che sono: persone.

Sei euro e novanta.
Tutti i giorni, sette giorni su sette.

E poi ci sei tu, educatore, mediatrice, psicologo, operatrice socio sanitaria, animatore sociale che dedichi parte della tua giornata alla cura. Questa, parola importante, gigante, fortemente evocativa, ma che non produce, ovviamente, profitti. Perché prendersi cura significa stringere relazioni, percorrere un pezzetto di strada assieme, che se qualcun* cade ci sarà un altr* a raccoglierl*, o a dargli una mano a rialzarsi, o semplicemente si siederà al suo fianco, perché cadere può essere doloroso se si è soli, sole. Prendersi cura significa mettere al servizio della persona tutta la tua professionalità, i tuoi anni di studio, i tuoi vissuti, le tue esperienze, le tue idee, le tue sensibilità. Insomma, ci sei tu, che sei un lavoratore, una lavoratrice. Che ti prendi cura di persone sicuramente svantaggiate, sicuramente fragili, che lo fai con grande impegno, che lo fai con grande attenzione, mettendo in campo le tue competenze, con scrupolosità. Ma soprattutto lo fai per lavoro. Non per la gloria dei cieli, non per le medaglie da appenderti a giacche che mai indosserai. Lo fai per lavoro, perché di quello vivi. Di quello paghi un affitto, un mutuo.

Sei euro e novanta.

Questa è la mia paga oraria. Ogni ora di lavoro, mi viene retribuita esattamente sei euro e novanta.
Non produco computer, non mi occupo di aerei militari, non assemblo pacchi, non scavo tunnel nelle montagne. Io sono un educatore.

Negli ultimi decenni, tutti i servizi sociali gestiti da Comuni e Regioni, sono stati poco alla volta appaltati a enti, cooperative e diverse realtà che le gestiscono “per conto di”, spesso addirittura subappaltando nuovamente il tutto ad altri gestori. Comunità, centri diurni, residenze assistenziali, doposcuola, cliniche, dormitori, tutti gestiti da cooperative. Appalti dati al massimo ribasso, ovviamente. E contratti, quindi, da privati. Proprio così, pur lavorando con un servizio pubblico, quindi, tutti noi educatori, educatrici, pur interfacciandoci con Asl, Centri di Salute Mentale, SERD, Gabinetti dei Protettorato Sociale, Enti comunali, siamo contrattualizzati da privati. Funziona così: Il Comune paga la Cooperativa (poco), la Cooperativa paga noi (pochissimo). I contratti sono legati al doppio filo, quindi da questa equazione, che sembra banale e superficiale, ma non lo è. Secondo voi, se un Comune ritarda i pagamenti alla Cooperativa, la cooperativa ci paga? E secondo voi, se le casse del Comune o dell’ente gestore pubblico sono in difficoltà, quale sarà il primo servizio che andrà a tagliare? Un servizio che genera profitti per le casse pubbliche o uno che invece non genera alcun profitto?

Sei euro e novanta.

Il meccanismo per cui siamo dipendenti delle Cooperative, ma di fatto pagati dagli enti pubblici, attraverso appunto le esternalizzazioni è qualcosa di aberrante, che genera disagi e problematiche, ansie e difficoltà. Siamo perennemente sotto un ricatto sociale difficile da combattere. Accade spesso di non essere pagati per mesi, ma di continuare a fare il nostro lavoro, perché ci dicono “non potete scioperare mica, così lasciate l’utenza scoperta, poveri ragazzi, loro non c’entrano nulla”. Certo, loro non c’entrano nulla. Ma noi siamo lavoratori, lavoratrici, non servi della gleba. Lavoriamo perché ci paghino uno stipendio, non siamo volontari, ma professionisti, professioniste. Il dispositivo messo in campo dagli enti pubblici, quindi, è da cambiare, stravolgere completamente. Non possiamo vivere in questa dicotomia perenne, non possiamo più continuare ad avere ansie ad ogni fine mese, a sopravvivere di “speriamo che questo mese ci paghino”.

Io lavoro, tu mi paghi.
Tu non mi paghi, io non lavoro.

Sei euro e novanta.

Lavoro con i servizi sociali da circa dieci anni, attraversando comunità, centri diurni, gruppi appartamenti e servizi di autonomia e ho colleghi e colleghe nella mia equipe con professionalità diversificata, tutti e tutte con contratti sempre diversi, sempre pagati miseramente, sempre con orari allucinanti, con notti talvolta non retribuite perché definite passive (ma passive di cosa, poi?). Una frammentazione contrattuale pazzesca che ci penalizza e ci rende ancora più invisibili, con ricadute enormi ma con responsabilità che non dipendono da noi. Uno Stato che non riconosce il valore di noi operatori/trici sociali, che continua a tagliare soldi al welfare, alla sanità. Anzi, diciamolo senza metti termini. Salute, salari, riconoscimento professionale sono stati attaccati da scelte politiche istituzionali discriminatorie che hanno eroso diritti sia all’utenza che alle lavoratrici e lavoratori, con ingiustificate differenze da territorio a territorio, da Servizio a Servizio, complici governo centrale, enti locali ed enti gestori.

Sei euro e novanta.

Nonostante la pandemia in corso, noi, non ci siamo mai fermati. Abbiamo comunque svolto il nostro lavoro, ci siamo ammalati, siamo finiti in ospedale, eppure abbiamo continuato a lavorare. Richiedendo protezione, sicurezze, per noi e per le persone con cui lavoriamo. Abbiamo dovuto battagliare per avere i dispositivi di protezione individuale e ci siamo accollati anche la difficoltà di gestire persone già fragili, già sole, già compromesse in un periodo difficilissimo e senza nessun tipo di riconoscimento.
Il governo centrale pensa (giustamente) a medici e infermieri. Eppure noi educatrici, noi operatori socio sanitari lavoriamo con disabili, minori, persone con diverse patologie, con anziani e adulti in difficoltà e non possiamo permetterci di fare smart working, non possiamo permetterci di lasciare sole queste persone. Però voglio rivendicare con forza il diritto alla salute mio, delle mie colleghe e dei miei colleghi, degli utenti che seguo, della sicurezza all’interno dei Servizi, per utenti e operatrici/operatori, voglio che si investa sulla manutenzione delle strutture, delle scuole, delle comunità, voglio avere adeguati strumenti di lavoro, protocolli e dispositivi di protezione. Soprattutto in questo periodo. Perché la pandemia ha scoperchiato tutto, e la normalità a cui tanto, governo, politici e grandi industriali, volete tornare, non la voglio, perché quella normalità era il problema. Che sia chiaro.

Sei euro e novanta.

Accompagnalo alla visita medica, urla, si dispera, ti chiama ogni secondo sul telefono, si arrabbia e ti ferisce, ributta su di te tutta la sua fragilità emotiva, pulisci la sua stanza, fai la spesa, prova a mediare con la sua famiglia, prendi l’appuntamento con l’assistente sociale, siediti a tavolino assieme a riscrivere il progetto che tra poco scade e deve essere di nuovo approvato dal Comune, accompagnala al SERD, senti al telefono lo psichiatra, si innamora di te, fate la lista delle spesa, cambiale il pannolone, vai dalla dottoressa di base per le impegnative, fai equipe con le tue colleghe e i tuoi colleghi, prepara la cena, partecipa al laboratorio di arteterapia, organizza eventi ludici e ricreativi, iscrivilo alla piscina, chiama l’ufficio anagrafe per rifare il documento di identità, organizza le riunioni di casa/comunità, ti chiama perché ha litigato con il suo vicino, si sono menati tra compagni di stanza, ha finito le terapie, voglio le sigarette cazzo, non ci sono soldi per comprare un paio di scarpe, fai la richiesta all’amministratore di sostegno perché ha terminato il budget mensile, i soggiorni estivi, si è mangiato nuovamente tutto il frigorifero, le terapie di gruppo, le terapie individuali, fai le docce, le alzate, prepara la colazione, sei sempre disponibile quando ha bisogno di parlare, scrivi tutto sul diario di comunità, ha una crisi, sorreggilo, rinforzarlo, andiamo a iscriverci alla palestra, si è fidanzato e ha bisogno di te, l’ennesima volta che fa pasticci con il telefono, metti la mascherina, togli la mascherina, rimetti la mascherina, igienizzati le mani cazzo, si è rotta la dentiera, vuole andare al cinema e come glielo spieghi che i cinema sono chiusi, vuole uscire dalla comunità, scappa, non si fuma in bagno mannaggia, accompagnalo ai laboratori di sessualità, oggi mi ha detto che vuole fare l’amore, sono tre giorni che non si alza dal letto, forse ha solo bisogno di un abbraccio.

Sei euro e novanta.

Amo il mio lavoro, lo amo talmente tanto che credo sia fondamentale far riconoscere i miei diritti.
Per questo oggi sciopero, assieme alle mie colleghe e ai miei colleghi.
Affinché il mio lavoro venga riconosciuto, affinché i miei diritti non vengano calpestati. Sciopero perché voglio farmi sentire. Sciopero perché voglio contrastare la mercificazione del welfare. Sciopero perché voglio prendermi cura dei miei utenti ma anche e soprattutto delle mie colleghe e dei miei colleghi, da Nord a Sud. Sciopero perché voglio essere pagato, sempre. Sciopero perché voglio un contratto vero, non una farsa. Sciopero perché non voglio essere più precario. Sciopero perché non mi fido più delle promesse del Governo e della nostra classe politica. Sciopero perché voglio urlare Reddito, Salute e Diritti.

Sciopero perché non sono invisibile. Sciopero perché io valgo.
Ma non voglio più valere sei euro e novanta.