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Gig Economy | Il reato di sfruttamento del lavoro vivo

11 June 2020 |  Avvocato Alessandro Brunetti

Il Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria della società Uber Italy, ovvero una delle piattaforme di Food delivery presente nelle più grandi città italiane. La misura è stata emanata poiché importanti indizi fanno ritenere che “la galassia Uber” abbia agevolato sia i propri dipendenti che altri intermediari nel reato di “sfruttamento del lavoro”. Segue l’editoriale dell’avvocato delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Alessandro Brunetti.

Per la prima volta in un caso avente rilevanza nazionale viene applicata una fattispecie nuova e diversa da quella preesistente. Quella di Uber, infatti, non è stata trattata alla stregua di altre vicende di caporalato. Nel 2016 sono state introdotte due distinte ipotesi che elevano lo sfruttamento a reato configurabile sia nei rapporti di lavoro diretti tra datore di lavoro e dipendente, che in quelli che coinvolgono l’intermediazione della manodopera. Il reato in esame prevede la pena della “reclusione da uno a sei anni con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato” per chi – in condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno – recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi ma anche per chi la utilizza direttamente.

Questo ampliamento attribuisce una autonoma responsabilità al datore di lavoro, a cui secondo la norma precedente era al più possibile contestare la correità. Il reato di sfruttamento prevede la sussistenza dei seguenti requisiti: il lavoratore deve trovarsi in uno stato di bisogno – per esempio deve garantire la sussistenza propria e quella della sua famiglia – e subire violazioni riguardo al rispetto dei contratti nazionali in materia di retribuzione, di orario di lavoro, di ferie ma anche di sicurezza e igiene, metodi di sorveglianza e situazione alloggiativa.

Dall’inchiesta giudiziaria è risultato esattamente questo: diversi manager e/o dipendenti della “galassia Uber” – in concorso o favoreggiamento con i titolari di società terze – hanno “sfruttato” direttamente il lavoro dei riders. I Giudici di Milano hanno rinvenuto tutto ciò nel “regime di sopraffazione retributivo e trattamentale” attuato a persone “in stato di emarginazione sociale e quindi di fragilità” che non potevano rivendicare diritti di base. Infatti sono stati accuratamente scelti tra coloro che, in regime di permesso provvisorio, attendevano lo status di rifugiato.

Questa situazione è dilagata – secondo il Tribunale di Milano – con l’emergenza sanitaria, con il reclutamento di persone disposte a lavorare in condizioni di rischio estremo. “Uber non poteva non sapere”, di qui il provvedimento in questione. Seguendo ed estendendo il ragionamento del Tribunale di Milano è possibile rinvenire una “condizione lavorativa degradante” nella ricattabilità generalizzata a tutto il mondo del lavoro quale conseguenza della liberalizzazione dei contratti a termine e dell’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. La ricattabilità è determinata dall’impossibilità della riassunzione in caso di licenziamento illegittimo. E l’inesigibilità dei diritti è all’origine delle condizioni degradanti.

Le condizioni lavorative ed esistenziali riconosciute dal giudice nella vicenda di Uber Italy sono facilmente riconoscibili in tutti i rapporti di lavoro al nero, precari,  falsamente autonomi, in appalto o subappalto. L’applicazione della norma potrebbe dunque rappresentare un’utile leva per restituire ai lavoratori un qualche potere contrattuale nel Far West che chiamiamo “mercato del lavoro”.