Focus

Lo smart working, la Pubblica Amministrazione e il COVID-19

14 March 2020

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a importanti cambiamenti demografici e sociali. Per citarne uno tra i più importanti: il tasso di natività è crollato finendo al di sotto di quello di sostituzione, il che vuol dire un progressivo invecchiamento della popolazione, che stando alle previsioni dell’Eurostat porterà il tasso di dipendenza delle persone anziane a superare il 50% nel 2050; allo stesso tempo è cresciuto considerevolmente il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro. In tale mutato contesto socio-demografico, ove l’unico welfare è quello familistico, ci si trova quindi sempre più schiacciati tra la cura dei propri familiari e le esigenze lavorative.

I dati di una recente indagine dell’ISTAT ci raccontano che sono ben 13 milioni gli italiani tra i 18 e i 64 anni che svolgono quotidianamente lavoro di caregiving, dovuto a una dimensione di genitorialità o di assistenza ai familiari anziani non autosufficienti o, spesso, a entrambe. Non a caso le ultime generazioni di lavoratori sono state definite da alcuni generazioni sandwich.

In questo quadro già di per sé complesso in cui è strutturale il problema della conciliazione dell’esigenze di vita privata con il lavoro, si è ora inserito il COVID-19, ponendo l’ulteriore problema della conciliazione della salute con il lavoro. Anzi, in molti casi la pandemia pone il problema della conciliazione di tutte e tre le variabili (esigenze di vita privata, salute e lavoro): ho i figli a casa da accudire perché le scuole sono chiuse, ma devo lavorare perché non mi è consentito assentarmi o perché se non lavoro perdo la retribuzione, eppure dovrei stare a casa per tutelare la mia salute e quella degli altri.

In assenza di uno Welfare State universalistico in grado di venire incontro alle necessità degli individui e di fronteggiare crisi come quella attuale, i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro subordinato possono aiutare a districarsi fra le mille difficoltà. In particolare il ricorso al lavoro agile (c.d. smart working) sembra al momento l’unico strumento in grado di permettere la prosecuzione, nel rispetto della salute e delle necessità di vita privata, di gran parte delle attività lavorative.

Per analizzare i livelli di diffusione dello smart working, è utile avere come riferimento un prima e un dopo l’emergenza COVID-19.

Prima dell’emergenza, vale a dire sino alla fine del 2019, uno studio di Eurofound e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro rilevava una diffusione media del lavoro agile intorno al 17%, con l’Italia fanalino di coda preceduta da Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Portogallo e Germania mentre in testa vi sono Danimarca (intorno al 37%), Svezia, Paesi Bassi, Regno Unito, Lussemburgo e Francia. In Italia il lavoro agile era attuato principalmente nel settore privato: secondo le ricerche condotte nel 2019 dall’Osservatorio smart-working del Politecnico di Milano, più del 50% delle grandi aziende hanno adottato tale modalità di lavoro e hanno ottenendo un incremento della produttività del 5-6%.

Le Pubbliche Amministrazioni erano invece in evidente ritardo, con quasi 4 PA su 10 che non avevano progetti di smart working, perché incerte (31%) o addirittura disinteressate (7%) rispetto alla sua introduzione. Inoltre i progetti di lavoro agile attivati nelle PA risultavano ancora limitati in termine di diffusione interna, coinvolgendo mediamente il 12% del personale dell’amministrazione, percentuale molto più bassa di quella delle imprese private e vicina a quel 10% che la direttiva Madia (2015) definiva come limite inferiore all’adozione. Le barriere che le PA si poneva all’introduzione di tale forma organizzativa erano la percezione che non fosse applicabile alla propria realtà (43%), la mancanza di consapevolezza dei benefici ottenibili (27%) e la presenza di attività poco digitalizzate, vincolata all’utilizzo di documenti cartacei e alla tecnologia inadeguata (21%). (Dati pubblicati il 30/10/2019 dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano).

Con l’esplodere dell’emergenza COVID-19, per limitare le occasioni di contagio il Governo ha emanato una serie di provvedimenti che spingono le PA verso il lavoro agile, eliminando il regime di sperimentalità che l’aveva caratterizzato sino a quel momento e semplificandone anche le modalità di utilizzo, al punto da considerare non necessaria la previa stipula di un accordo individuale tra l’amministrazione e il lavoratore (prevista invece dalla L.124/2015 – Riforma Madia). Nell’ultimo DPCM dell’11/03/2020 il Governo ha addirittura disposto che durante l’emergenza il lavoro agile deve rappresentare la forma ordinaria della prestazione lavorativa, mentre la prestazione in sede quella straordinaria e eccezionale.

Ciò nonostante, l’impiego dello smart working da parte delle PA si sta rivelando in questi giorni farraginoso e sta mostrando la sua assoluta impreparazione ad accoglierlo, vuoi per le scelte organizzative e produttive adottate fino a ieri, vuoi per l’assenza di quel complesso di competenze e strumenti tecnici necessari per estenderla su larga scala.

Il Ministero per la Pubblica Amministrazione è dovuto quindi intervenire con la circolare n. 1/2020, che reca “Misure incentivanti per il ricorso a modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa”. Questa circolare, però, giunge a distanza di quasi 5 anni dalla Riforma Madia (L. 124/2015), che obbligava le Amministrazioni solamente ad adottare misure organizzative che permettessero entro un triennio (quindi entro il 2018) di passare al lavoro agile per almeno il 10% dei dipendenti che ne facessero richiesta.  E durante questo lasso di tempo, le PA si sono limitate a seguire un approccio di mero adempimento normativo, adagiandosi sulla soglia di diffusione minima del 10% prevista dalla Riforma. Pertanto, agli albori della crisi da Coronavirus, le Pubbliche Amministrazioni che impiegavano lo smart working si contavano sulle dita di una mano.

Del resto era la stessa Legge 124/2015 ad averlo previsto in via “sperimentale”, il che ha ridotto gli sforzi di innovazione organizzativa e ha tolto concretezza alla riforma. Non a caso la citata circolare 1/2020 ha deciso di superare la sperimentazione stabilendo che “è superato il regime sperimentale dell’obbligo per le amministrazioni di adottare misure organizzative per il ricorso a nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la conseguenza che la misura opera a regime”.

Altro motivo dell’impreparazione della PA deriva dall’articolo 14 della L. 124/2015, colpevole di aver reso di fatto impossibile l’estensione del lavoro agile prevedendo che ciò avvenga “nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. La Madia, in sostanza, da una parte voleva riformare l’organizzazione lavorativa nel settore pubblico, dall’altra, però, non permetteva di stanziare i soldi necessari. Di questa bizzarria, seppur in ritardo, se ne è accorta evidentemente anche la mano che ha redatto la citata circolare 1/2020, la quale ha cercato di correre ai ripari consentendo alla CONSIP di aumentare del 50% le forniture di personal computer e autorizzando anche l’utilizzo di quelli privati in possesso dei dipendenti.

Da ultimo, tra i motivi del fallimento dell’approccio della PA allo smart working va annoverata anche quella retorica che pone l’equazione lavoro agile = “liberi tutti”. Si tratta di una concezione evidentemente arcaica che fa discendere la produttività solo dal numero di ore che si trascorrono sul luogo di lavoro e non dall’efficienza nello svolgimento della prestazione lavorativa, contraddetta dalle analisi ad oggi condotte sull’impiego dello smart working nel settore privato. Tutte queste hanno, infatti, misurato una crescita della produttività e addirittura una maggior partecipazione del lavoratore nel perseguimento degli obiettivi aziendali.

Per via di questa concezione che si fatica a superare, per l’assenza di reali investimenti e per il mancato sviluppo di una piattaforma telematica e di strumentazione adeguata a consentire alle migliaia di dipendenti pubblici di collegarsi da remoto, la PA si è fatta trovare impreparata nell’affrontare la crisi del COVID-19 e nel porre al riparo dal rischio di contagio i suoi dipendenti. Allo stato delle cose la PA non è in grado di estendere oltre un certo limite lo smart working ai suoi dipendenti e contestualmente mantenere invariati i suoi livelli di produttività. Per questo sino a pochi giorni fa si è trovata a dover decidere se tutelare in via prioritaria la salute dei dipendenti o i livelli dei servizi offerti. Ciò sino al DPCM 11/03/2020, che al comma 6 dell’art. 1 ha disposto che “fatte salve le attività strettamente funzionali alla gestione dell’emergenza, le pubbliche amministrazioni, assicurano lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio personale dipendente”, costringendo così le pubbliche amministrazioni a ritenere prioritaria l’incolumità del suo personale e a rendere “agili” tutte le prestazioni lavorative che non debbano indifferibilmente essere rese sul luogo di lavoro.

E il dipendente la cui prestazione non è conciliabile con il lavoro agile come viene tutelato?  Sono proprio i lavoratori che non potranno usufruire dello smart working a pagare il prezzo della crisi. L’insoddisfacente, e contraddittoria, soluzione individuata dal Governo si rinviene in tutti i DPCM che si sono susseguiti negli ultimi giorni: incentivare ferie, congedi parentali e permessi. Non solo tale soluzione appare paradossale, perché trasla l’obbligo in capo al datore di tutelare la salute del dipendente sulle spalle di quest’ultimo, che dovrà scegliere se consumare le ferie maturate per evitare il contagio (ritrovandosi ad agosto con il problema di come gestire i figli quando non avranno né ferie né congedi e le scuole saranno chiuse), ma neanche considera chi ha già esaurito il monte ferie o i permessi e non ha figli.

Per uscire incolumi da questa emergenza, serve un immediato cambio di passo.