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Il re è nudo

13 September 2018 |  Francesco Raparelli  Tiziano Trobia

È un decennio che Confindustria, governi e stampa attribuiscono le colpe del declino alle giovani generazioni: poco formate, mammone, per nulla intraprendenti. Ma i dati parlano chiaro: responsabili del fallimento italico sono le imprese. [Foto di copertina Pixabay]

È doveroso chiarire: l’unico che ha detto la verità, in questi anni, è stato Maurizio Sacconi. Alle studentesse e agli studenti dell’Onda, che per un biennio e in completa solitudine hanno provato a resistere all’offensiva neoliberale scatenata dalla crisi finanziaria, indicò senza giri di parole: «abituatevi a fare lavori umili e manuali». Un modo elegante per affermare, con largo anticipo, che «la pacchia è finita». Dall’eleganza del craxiano non pentito alla strafottenza dei tecnici cari alla sinistra; da «bamboccioni» a «choosey». La volgarità di Poletti, poi, ha toccato l’apice: in riferimento alla fuga giovanile dall’Italia, l’ex ministro non si è trattenuto… «meglio non averli tra i coglioni».

Sono anni dunque che si attribuisce la colpa di tutti i mali italici all’offerta di forza-lavoro. Se fossero veramente formati, i giovani, lavorerebbero. Se avessero capito davvero cosa serve alle imprese, alle «fabbrichette», oggi non andrebbero all’estero; e, soprattutto, non romperebbero i coglioni a Poletti e alla sua banda. «Investire in conoscenza»: non è questa la formula magica per arrivare in alto e dunque rilanciare la mobilità sociale?

Poi arrivano i numeri e anche l’organo degli industriali del Bel Paese (fallito), il Sole 24 Ore, è costretto ad ammettere che qualcosa non torna. L’Italia, anche per quest’anno, ha conquistato il premio: siamo i più vecchi d’Europa. Indubbiamente il problema è la natalità, e dal punto di vista demografico siamo messi come nel 1918: più decessi che nascite. Ma il problema è anche l’esilio forzato di una generazione: quel milione e mezzo di giovani formati (e le stime sono a ribasso, perché chi va all’estero non sempre cambia la residenza) che, dal 2008 a oggi, hanno voltato le spalle agli spaghetti cucinati da mammà – per citare Donna Elsa. Federico Fubini, qualche tempo fa, parlò di una perdita di 23-24 miliardi di euro investiti, dallo Stato, in capitale umano.

Ma ciò che davvero non torna anche a Confindustria, è per quale motivo in Italia ci siano 437mila giovani sovraistruiti per il lavoro che svolgono, ovvero il loro titolo di studio è più alto delle mansioni effettivamente esercitate. Secondo un’analisi dei dati ISTAT: il 18% dei diplomati tra i 20 e i 24 anni (123mila); il 28% dei laureati tra i 25 e i 34 anni (314mila). Ciò, nonostante il numero dei laureati in Italia sia il più basso d’Europa e buona parte dei laureati, come prima chiarito, siano all’estero o in procinto di andarci; e nonostante la fuga dalla scuola, come ci indica l’inchiesta da poco pubblicata dall’Espresso, sia sempre più drammatica (150mila all’anno).

Ovvio, Del Conte di ANPAL e l’OCSE non hanno dubbi, e danno la colpa all’orientamento: invece di insegnare cose inutili (letteratura, filosofia, storia, latino, ecc.), le scuole dovrebbero, con l’alternanza introdotta da Renzi, far lavorare gratis gli scansafatiche nei fast food. Così apprendono le soft skills… Comunque sia, bene chiarire ai quattordicenni che le facoltà universitarie buone sono tre o quattro, forse: ingegneria, medicina, economia, chimica e tecnologia farmaceutica. E pure l’università, dove le immatricolazioni negli ultimi anni si sono ridotte del 10%, dovrebbe occuparsi di spiegare al ventenne quali sono le esigenze dei distretti lombardo-veneti o delle «multinazionali tascabili», dei capannoni e dei padroncini. Giusto.

Sempre in ultimo, e con timidezza, si ricorda che forse il problema è la domanda: il nanismo delle imprese, la mancanza – cronica – di investimenti in innovazione e ricerca. E allora si chiedono politiche pubbliche a sostegno dei «settori più dinamici». Certo, non sono bastati Jobs Act, agevolazioni fiscali, decontribuzione, miliardi per Industria 4.0, moderazione salariale e contrattazione collettiva senza unghie (dall’estate del 1993 in poi). No. Ci vogliono ancora risorse, da accompagnare alla Flat Tax e per far fuori il reddito di cittadinanza. Come Benetton ci insegna, le aziende italiane non hanno più pudore alcuno: non abbassano la testa neanche se crolla un ponte che spezza decine di vite e una città intera. Mentre Salvini e soci scaricano il loro odio, e il peso delle colpe tutte, contro i migranti.

Il re è nudo. I numeri, come le nostre esistenze precarie, parlano fin troppo chiaro. Colpevoli sono i datori, le imprese, i padroni e i padroncini che hanno spolpato il nostro paese, massacrato i salari, schiavizzato i migranti, evaso il fisco, distrutto i diritti e che ora, come se nulla fosse, aprono le gabbie dei “leoni” affinché nessuno parli del problema reale: il sistema produttivo italico, ai gradini più bassi della nuova divisione internazionale del lavoro. Sì, ci vogliono politiche pubbliche: ma per liberare dal ricatto della precarietà e della sotto-occupazione milioni di giovani e meno giovani fin troppo formati. Reddito di cittadinanza sostanzioso e per nulla condizionato; finanziamenti alla scuola, all’università e alla ricerca pubbliche; investimenti massici per rendere belle e vivibili le nostre città, con il loro straordinario patrimonio artistico; sostegno alla produzione culturale indipendente; risorse pubbliche per garantire formazione permanente e accesso alle nuove tecnologie: un programma minimo, non di certo massimo, per rialzare la testa.