Focus

Per un pugno di voucher

7 September 2016 |  Avvocato Alessandro Brunetti

Assistiamo a una crescita dilagante e apparentemente inarrestabile delle prestazioni di lavoro accessorio. Si inizia a parlare di “generazione voucher”. Dopo aver abrogato i contratti a progetto si torna alle collaborazioni coordinate e continuative, sicuramente meno protette dall’abrogazione del progetto attuato dal governo con il D.Lgs. n. 81/2015, ma comunque sottoposte al rischio giudiziale dell’accertamento della natura subordinata, grazie a una giurisprudenza ventennale che ha continuativamente sanzionato tali contratti dove ricorrevano gli indici della subordinazione.

Ora i voucher – sprovvisti di ogni tutela – rappresentano un invito allettante all’abuso proprio perché il precariato funziona come un enorme sistema di vasi comunicanti (l’acqua va dove minori sono le tutele, i costi e i rischi giudiziari), e, lungi dal prosciugarsi, adesso gran parte dell’acqua si sta improvvisamente riversando sui «buoni lavoro» che grazie alle riforme Monti prima (2012) e Renzi poi (2015) sono letteralmente esplosi.

I voucher garantiscono l’enorme vantaggio (per il datore di lavoro) di non dover neanche più contrattualizzare il dipendente: che anzi, nei casi di sfruttamento più radicale, si può continuare a retribuire per la gran parte in nero, dandogli solo qualche voucher “di facciata” ogni tanto. Soprattutto quando c’è un’ispezione o quando si infortuna: l’INAIL sottolinea infatti come quasi sempre il giorno di infortunio coincida con il primo di pagamento del voucher, mentre in precedenza non appare alcun rapporto tra impresa e lavoratore. Quindi diventa uno strumento di tutela a copertura integrale dei datori di lavoro anche davanti ai debolissimi strumenti di accertamento dell’ispettorato del lavoro ed ai rilievi anche penalistici connessi agli infortuni di lavoratori privi dell’assicurazione previdenziale.

Si assiste dunque a un’esplosione che segue una crescita progressiva ed esponenziale quantomeno dal 2013, una crescita connessa con un inarrestabile percorso di liberalizzazione e profittabilità dell’istituto.

Se prima, alla sua nascita nel 2003, dunque, il voucher era passato per le mani di qualche pensionato o studente per retribuire piccoli «lavoretti» domestici o di giardinaggio, a poco a poco è dilagato tra colf, braccianti e camerieri, per esplodere infine in tutti i settori per ogni tipo di lavoratore. Attraverso un processo di liberalizzazione soggettiva e oggettiva. Tanto che le agenzie interinali oggi lo inseriscono strutturalmente tra le modalità di retribuzione proposti.

Nei numeri si assiste ad un trend esponenziale:

  • se nel 2008 le persone retribuite con almeno un ticket sono state poco più di 24 mila, nel 2015 sono salite a quasi 1,4 milioni.
  • se i buoni lavoro venduti nel 2009 erano 1.670.000, sono stati 40,8 milioni nel 2013, sono poi balzati a 69 milioni nel 2014 (+69%) e infine a 114,9 milioni nel 2015 (+66%).Performance che si ripetono anche a inizio 2016 (+45% nel primo bimestre),

Per quanto riguarda la composizione soggettiva, più di tutto si deve dire che il voucher a oggi è tendenzialmente “giovane”: un percettore su tre, nel 2015, (dati INPS/ministero del Lavoro – come tutti quelli che citiamo), ha meno di 25 anni (il 31%, più di 400 mila ragazzi e ragazze). Oltre che giovani, i “voucheristi” sono soprattutto donne. Il “sorpasso”, secondo i dati del ministero del Lavoro, è avvenuto nel 2014: «Tra il 2008 e il 2015 la quota di donne tra i percettori è cresciuta in maniera progressiva e piuttosto rapidamente, passando dal 22 % al 52 % del totale».

Certo è che quando gli incentivi saranno finiti nel 2018 e con l’entrata in regime dei licenziamenti “facili” previsti dal Jobs Act, gran parte degli assunti con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti – assolutamente privi di alcuna stabilità in assenza di una efficace tutela contro il recesso illegittimo – si assisterà ad una impennata dei recessi che sicuramente, in grande parte, potranno essere riassorbiti dal lavoro accessorio che così amplierà di molto – diversificandola – la platea anagrafica di chi vi è sottoposto proseguendo nella tendenza di crescita descritta.

Anzi questo fenomeno di “generalizzazione” del lavoro accessorio, acceso in sostituzione di una domanda stabile a ben vedere è già in atto, la crescita descritta viaggia parallelamente al crollo dei contratti a tempo indeterminato: l’osservatorio sul precariato dell’INPS ha recentemente ha rivelato che tagliati del 40% gli sgravi contributivi alle imprese, il saldo della assunzioni sedicenti a tempo indeterminato è crollato. E infatti nel primo trimestre del 2016:

  • i contratti a tempo indeterminato sono crollati del 33%: 51mila unità, contro i 225mila di un anno fa. Dunque 162 mila in meno;
  • le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato sono crollati del 31%: meno 53.339 contratti.

Nel 2014, quando lo Stato italiano non aveva ancora iniziato a regalare al capitale privato tra i 14 e i 22 miliardi di euro, le trasformazioni erano di 42.527. La droga monetaria non è servita nemmeno a creare più occupazione rispetto all’anno peggiore della crisi, il 2014: allora il 36,2% dei contratti era a tempo indeterminato, oggi solo il 33,2% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato.

I diritti e le tutele

I voucher hanno un valore nominale di 10 euro, in tasca ai lavoratori vanno 7,50 euro. Il resto è composto da: 1,30 euro che vanno alla gestione separata INPS (pensione), 0,70 euro per l’INAIL (assicurazione) e 0,50 euro di spese di gestione. Ma pur essendo riconosciuto ai fini della pensione, il voucher «non dà diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell’INPS (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.)», né ovviamente a qualsivoglia ipotesi di stabilità.

Ci troviamo innanzi a una nuova categoria di working poors, che a questo punto risulta ancora più scoperta, non solo per la miserabile retribuzione massimale prevista ma anche e soprattutto sul fronte delle tutele, dei già sofferenti collaboratori e delle partite Iva. Ovverosia l’ultimo anello della catena dello sfruttamento.

Entriamo nel dettaglio

Ripercorrendo rapidamente la genesi del LAVORO OCCASIONALE E ACCESSORIO:

questa forma di lavoro nasce occasionale ed accessoria con l’art. 70 ss. del D.Lgs. n. 276/2003. In stallo per un quinquennio (2003-2008), viene sperimentata inizialmente per la sola agricoltura e poi subito attuata per tutti i lavori “marginali” ad alto rischio di illegalità. Definite le “prestazioni di lavoro accessorio” come “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne” (art. 70, comma 1 versione originale), il legislatore sembrò definirne il ristretto campo di applicazione, limitandolo ai “piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap; insegnamento privato supplementare; piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti; realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli; collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità naturali o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà” svolti da “disoccupati da oltre un anno; casalinghe, studenti e pensionati; disabili e soggetti in comunità di recupero; lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro”.

A tali (stretti) requisiti oggettivi e soggettivi, il legislatore cumulò una ulteriore doppia barriera, consentendo tali “rapporti di natura meramente occasionale e accessoria” per “una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare” per compensi complessivi a favore del prestatore “non superiori a 3000 euro”.

Il legislatore della legge Biagi sancì dunque una linea di separazione tra:

  • il lavoro occasionale accessorio sin qui descritto di cui non viene indicata la qualificazione contrattuale;
  • e il lavoro occasionale “e basta”, che trova la sua definizione nell’art. 61, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 “intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro”. In tale secondo caso si tratta di prestazioni lavorative di manifesta natura autonoma, realizzate a favore di un soggetto senza il vincolo della subordinazione e con il carattere dell’occasionalità, come lavoro autonomo senza progetto (disciplinato nel medesimo art. 61) ma comunque legittime. Diciamo sin da ora che tale forma di lavoro occasionale avente chiara natura autonoma non ha avuto grande diffusione proprio perché stante la dedotta chiara qualificazione del rapporto entro l’alveo dell’autonomia era abbastanza semplice dal punto di vista giudiziale accedere alla stabilizzazione a tempo indeterminato provando la natura subordinata sottesa alla prestazione. Ciò al di là del rispetto del limite dei 30 giorni o dei 5000 euro.

Invece al lavoro occasionale accessorio – sulla cui qualificazione tra subordinazione e autonomia si è molto discusso in dottrina e giurisprudenza – è stata aperta la strada per una sicura diffusione attraverso una pluralità di interventi a liberalizzazione progressiva.

  • Ma già solo un anno dopo, nel 2004 la soglia economica per il lavoro occasionale e accessorio fu elevata a € 5.000, intesi come netto percepito dal lavoratore (art. 16, D.Lgs. n. 251/2004);
  • Ulteriormente, nel 2005 venne eliminato il limite temporale dei 30 giorni lavorativi annuali (D.L. 14 marzo 2005, n. 35 conv. con mod. dalla L. n. 80/2005) e ampliato l’elenco delle attività per cui si può ricorrere ai voucher, aggiungendo il lavoro prestato nell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. “limitatamente al commercio, al turismo e ai servizi” per un importo complessivo non superiore a € 10.000 nell’anno fiscale e per le “vendemmie di breve durata e a carattere saltuario, effettuata da studenti e pensionati” (D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella L. n. 248/2005);
  • Con n. 133/2008 i requisiti soggettivi vennero abrogati e le tipologie di lavoro occasionale “puro” e di occasionale accessorio si trovarono a convivere nell’ordinamento, pur se soggetti (apparentemente) a regimi diversi: il primo, rapporto di lavoro autonomo, ma sempre esposto al “pericolo” di riqualificazione in lavoro “senza progetto” e, quindi, in lavoro subordinato; il secondo, nel limbo creato dal Legislatore tra autonomia e subordinazione, retribuito con buoni lavoro di importo fisso comprendenti la regolarizzazione ai fini INPS e INAIL.

La ovvia predilezione per i voucher, per il lavoro occasionale accessorio, ne determinò il successo, rafforzato dalla ulteriore liberalizzazione via Fornero e post Fornero (art. 7, comma 2, lett. e, D.L. n. 76/2013 convertito in L. n. 99/2013) imponendo una radicale trasformazione alla originaria disciplina del lavoro accessorio con l’effetto di rivoluzionare il mercato del lavoro.

  • Infatti, anzitutto, la legge n. 92/2012, pur ribadendo la natura meramente occasionale dei rapporti di lavoro accessorio, ha eliminato i requisiti oggettivi, ovverosia l’elenco di attività previste dalla disciplina previgente e, adottando un criterio più propriamente economico e quantitativo, ha stabilito che si definisce “lavoro accessorio” quello per il quale il prestatore di lavoro, nel corso dell’anno solare, non percepisse più di euro 5.000 netti complessivi e non più di euro 2.000 netti da ciascun committente (imprenditore o professionista). Dunque, con la legge n. 92/2012 i buoni lavoro sono estesi a «tutti i settori produttivi compresi gli enti locali». Evidentemente per il legislatore non c’era abbastanza precarietà nel pubblico impiego;
  • Ma la successiva legge n. 99/2013, che ha convertito il D.L n. 76/2013, è giunta a modificare la natura stessa del lavoro accessorio. Infatti, confermando una “interpretazione” dell’istituto già formulata dal Ministero del lavoro con la circolare n. 4/2013, ha eliminato dalla definizione delle prestazioni di lavoro accessorio (comma 1, dell’art. 70 del D.Lgs. n. 276/2003) il riferimento alla «natura meramente occasionale». Pertanto tale tipologia di lavoro è stata definita dai soli limiti economici dei compensi, prescindendo invece – ciò che più conta – dalla tipologia della attività svolta.

Questo passaggio ha portato l’esplosione statistica di cui abbiamo parlato prima e che appare utile richiamare per un raffronto con le date degli interventi normativi che si sono susseguiti: si passa dal 1.670.000 buoni lavoro nel 2009 a 40,8 milioni buoni lavoro venduti nel 2013 poi balzati a 69 milioni nel 2014 (+69%) e infine a 114,9 milioni nel 2015 (+66%). Performance che si ripetono anche a inizio 2016 (+45% nel primo bimestre).

E’ del tutto evidente che la coincidenza tra l’esplosione dei voucher e lo scollamento formale del lavoro accessorio dall’attività meramente occasionale conduce indubitabilmente a ritenere che l’utilizzo del voucher è strutturalmente fraudolento, volto cioè a dare una misera copertura legale a prestazioni di lavoro assolutamente continuative e “strutturali” che vengono retribuite miserabilmente.

IL JOBS ACT

Con nonchalance, (anche) il Legislatore del D.Lgs. n. 81/2015 glissa sulla qualificazione del lavoro accessorio, ovverosia se esso debba intendersi subordinato o autonomo. Ciò come visto al contrario del lavoro meramente occasionale che essendo pacificamente autonomo poteva essere facilmente impugnato e, proprio per questo, viene chirurgicamente abrogato dal Jobs Act (operazione questa che qualifica l’intero impianto normativo de quo che, enunciando pubblicamente l’abrogazione e lo “sfoltimento” dei sottotipi contrattuali precari, si limita in realtà ad espungere esclusivamente le fattispecie maggiormente tutelate).

Ciò che viene a rilevare, infatti, è solo il limite di natura economica riferito al tetto dei compensi annui percepiti dal singolo lavoratore nei confronti della totalità dei suoi committenti.

Nel volgere di un decennio si è passati dunque dalla nozione di «attività lavorative di natura meramente occasionale» (art. 70, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 originale) alla definizione delle prestazioni di lavoro accessorio quali «attività lavorative di natura occasionale» (come disposto dall’art. 22, L. n. 133/2008 nella riscrittura dell’art. 70, cit.) per arrivare all’odierna formulazione di sola “accessorietà” senza vincoli di tempo, ripetitività o eccezionalità.

E ciò in barba all’INPS che continua a richiedere che le prestazioni siano svolte «in modo saltuario».

Ma, se dell’originaria occasionalità non c’è più traccia, in questo primo approccio occorre quantomeno rilevare l’evidente contrasto rispetto al sentiero tracciato dal Legislatore delegante, che ha espressamente ribadita la natura discontinua e occasionale delle prestazioni di lavoro accessorio (art. 1, comma 7, lett. h, L. n. 183/2014).

Infatti con la legge delega, al sottocomma h del comma 7 dell’art. 1, è stato incaricato il Governo di «estendere, secondo linee coerenti con quanto disposto dalla lettera a) il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali». Ciò che il Governo ha certamente esteso è l’utilizzabilità di tale strumento portando da 5.000 a 7.000 euro il massimale annuo delle retribuzioni percepibili con tale metodologia di pagamento, limitando però – con un presunto intento antifraudolento – i compensi a € 2.000 l’anno per ciascun singolo committente se questi è un professionista o un imprenditore o altrimenti a € 3.000 un privato cittadino o ente locale. Si segnala sin da subito che l’ulteriore previsione che tale tetto massimo di 7000 euro annui non superi però i € 2000 per ciascun committente è assolutamente priva di senso. E infatti, liberalizzandosi completamente la platea soggettiva di coloro che possono assumere acquistando voucher, imprenditori, enti pubblici o privati, ebbene il medesimo committente può giungere a far lavorare continuativamente per un intero anno sino alla soglia massima dei 7000 euro facendo acquistare i voucher eccedenti i 2.000 ad un collega, alla moglie, ad un amico, a chicchessia. Ciò senza contare che il limite retributivo svincolato totalmente da quello temporale, ovvero dalla durata massima della prestazione in favore del medesimo committente, sta a segnare eventualmente il grado infimo e miserabile della retribuzione mensile che verrà erogata al prestatore di lavoro. Spacciare questa regolamentazione come una norma anti-fraudolenta è davvero inconcepibile. In sintesi con il Jobs Act – abrogandosi l’art. 61 del Dlgs 276/2003 – si abroga anche la previsione per cui si intendono «prestazioni occasionali…i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare ovvero, nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore, con lo stesso committente» ovvero le prestazioni occasionali pacificamente autonome e facilmente convertibili in rapporti di lavoro subordinato. Rimane dunque il lavoro accessorio la cui unica qualificazione è quella di percepire una retribuzione mensile non superiore 580 euro pur lavorando in ipotesi sei giorni a settimana per 12 mesi l’anno (somma che si ottiene ripartendo i 7000 euro annui in ratei mensili). L’unica qualificazione del lavoro accessorio è il guadagnare al massimo 580 euro al mese. Come si vede non è stato esteso «il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali», ma si è tentato di introdurre una nuova tipologia contrattuale in deroga da ogni diritto per i soli lavoratori poveri. Ed anche ciò – oltre che ignobile – ci pare avvenuto in assenza di qualsivoglia delega al riguardo del Parlamento.

PERCHÉ TENTATIVO?

La disciplina dell’istituto, così come si è delineata nella successione delle leggi descritta, appare subito di difficile armonizzazione con l’insieme del diritto del lavoro vigente nel nostro ordinamento.

La nuova disciplina del lavoro accessorio, estesa a qualsiasi tipologia di prestazione, abbandonato il requisito dell’occasionalità –che sembrava limitarla alle sole prestazioni lavorative non continuative, marginali, prevalentemente “autonome” o perlomeno border line e stabilendo un criterio distintivo esclusivamente economico, prescinde del tutto dalla qualificazione del rapporto di lavoro, in quanto consente di disciplinare allo stesso modo sia rapporti di lavoro, di fatto, subordinati che rapporti di lavoro senza il requisito della subordinazione. Si tratta di una normativa “speciale” la cui compatibilità con il diritto del lavoro (residualmente) vigente e con la consolidata giurisprudenza è in evidentemente contrasto frontale. E’ evidente che le maggiori criticità della disciplina del «lavoro accessorio» si riscontrano nel caso abbia ad oggetto prestazioni che, pur rientrando nei limiti economici predetti (e dunque nella definizione legale di lavoro accessorio), abbiano effettiva natura di lavoro subordinato.

Il lavoro occasionale non è un tipo di contratto

In primo luogo si deve rilevare l’anomalia costituita dal fatto che «il lavoro accessorio» non è uno dei vari tipi di contratti di lavoro subordinato o parasubordinato oggi presenti nel nostro ordinamento. Infatti, oltre al dato letterale, la legge non parla mai di “contratto di lavoro accessorio» ma di «prestazioni di lavoro accessorio», tale istituto manca degli elementi essenziali del contratto disciplinati dall’art. 1321 del c.c.. In particolare è del tutto assente l’accordo delle parti per costituire uno specifico rapporto giuridico. Manca del tutto l’incontro tra volontà che da origine ad un contratto. Infatti la disciplina legale del lavoro accessorio (art.48) presuppone degli adempimenti formali (acquisto dei voucher, comunicazione preventiva all’INPS/INAIL) qualificabili tuttalpiù come “atti unilaterali” posti in essere da uno solo dei contraenti, ovvero dal committente/datore di lavoro. Infatti non si può considerare come manifestazione di accettazione di una proposta contrattuale la materiale ricezione dei buoni lavoro da parte del lavoratore quale compenso di una prestazione lavorativa già compiuta. L’accettazione del voucher come mezzo di pagamento da parte del prestatore di lavoro (normalmente considerato dal nostro ordinamento “parte debole” del rapporto di lavoro), evidentemente a prestazione già avvenuta e dunque a rapporto già costituito, non può essere considerata valida rinuncia ai propri diritti di lavoratore subordinato derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi (art. 2113 c.c.) e dunque non può che lasciare impregiudicata la questione circa la qualificazione del rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze sulla disciplina applicabile.

Al centro della qualificazione di un rapporto di lavoro vi è il contratto che vi ha dato origine, anche di fatto, anche indipendentemente dal nomen juris scelto dalle parti.

Come è noto, uniformemente la dottrina prevalente e la giurisprudenza hanno accolto la tesi dell’origine contrattuale del rapporto di lavoro, ritenendo il contratto garanzia di libertà delle parti, pienamente compatibile con le limitazioni derivanti dalla disciplina inderogabile e con la regolamentazione di una eventuale prestazione di fatto, che anzi presuppone espressamente l’esistenza di un contratto sia pure invalido (Cass., S.U., sent. 17 maggio 1996, n. 4570). La riconduzione del rapporto di lavoro alla fonte contrattuale permette infatti di affrontare molti problemi, altrimenti di difficile soluzione, con la disciplina generale del negozio sancita dal codice civile. La dottrina infine definisce il contratto di lavoro come un contratto oneroso di scambio a prestazioni corrispettive, nel quale la causa è costituita proprio dallo scambio tra lavoro e retribuzione secondo un vincolo di reciprocità (art. 2094 c.c.).

Nel nostro ordinamento, in relazione alla forma contrattuale che può assumere la prestazione lavorativa, esiste dai tempi del diritto romano vi è una stringente suddivisione dicotomica:

– da una parte la locatio operis con l’obbligo di risultato ovvero il lavoro autonomo ove vi è la derogabilità delle condizioni

– la locatio operarum, con obbligo a prestare la propria attività ovvero i lavoro subordinato dove vige l’inderogabilità normativa e contrattuale

Mentre la prima può essere sottoposta alla libera pattuizione delle parti e quindi anche la libera pattuizione delle modalità del pagamento e della sua quantificazione, la seconda è sottoposta inderogabilmente alle fonti normative e della contrattazione collettiva.

Pertanto se la disciplina del «lavoro accessorio» non consente di qualificare il rapporto di lavoro come «tipo contrattuale», ma una mera modalità della retribuzione che appunto di per se e non è un contratto, occorrerà valutare dunque, caso per caso, quale tipo di contratto in concreto, di fatto, è stato posto in essere tra le parti investigando le concrete modalità di esplicazione della prestazione lavorativa; se, a esempio, quello autonomo di cui all’art. 2222 del c.c., oppure quello avente natura subordinata di cui all’art. 2094 c.c. (forma contrattuale a cui si può accedere anche quando non vi sia una sorta di eterodirezione forte della prestazione lavorativa, ma l’attenuata etero-organizzazione delle mansioni e dei tempi di lavoro così come previsto dall’art. 2 del Dlvo 81/2015). Ciò ovviamente prescindendo dal fatto che il pagamento del corrispettivo/retribuzione sia avvenuta tramite “voucher” ed entro il limite economico indicato dall’art. 48 del Dlsvo 81. In ogni caso, secondo gli insegnamenti della Corte di Cassazione (Cass. S.U. n. 61 del 13/02/1999), neanche la qualificazione del rapporto data dalle parti stesse impedisce una verifica giudiziale sulla effettiva natura del rapporto di lavoro. Se dunque, persino la formale stipula di un contratto di lavoro “autonomo”, non esclude che al lavoratore, effettivamente subordinato, siano riconosciuti tutti i diritti inderogabili che la legge prevede per il lavoro dipendente, tanto più tali diritti devono essere garantiti quando, in assenza di contratto, il datore di lavoro abbia unilateralmente qualificato come «lavoro accessorio» una prestazione resa nell’ambito della subordinazione.

Appare incontestabile dunque che, nel caso in cui il rapporto di lavoro, qualificabile come “accessorio”, si sia svolto in concreto con i caratteri della subordinazione o dell’attenuata etero organizzazione, il prestatore di lavoro possa in ogni caso rivolgersi al giudice per l’accertamento giudiziale della effettiva natura del rapporto e quindi di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in quanto di fatto nel rapporto instauratesi vi è un termine. Ma posto che il contratto a tempo determinato – anche nella riforma liberalizzante prevista dal Decreto Poletti – prevede necessariamente la forma scritta del contratto ed essendo il lavoro accessorio privo di forma scritta mancando qualsivoglia contratto, ebbene sarà possibile ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nonché tutte le differenze retributive tra i voucher ricevuti in pagamento e la retribuzione prevista dal contratto collettivo applicabile (proprio perché il rapporto di lavoro subordinato non ammette deroghe alla modalità di pagamento ed alla quantificazione della retribuzione).

 

Tratto da Lavoro vivo