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Francia in piazza contro la loi travail

14 March 2016

FranciaIl 9 marzo, in tutta la Francia, ha suonato il tempo dello sciopero: più di 500mila persone nelle piazze, per dire no alla loi travail del governo Hollande. Ecco cosa prevede il nuovo progetto di legge.

L’annuncio di legge sul lavoro in Francia promosso dal ministro Myriam El Khomri ha generato un forte dissenso e una serie di contestazioni che il 9 marzo si sono raccolte in una mobilitazione importante, e per niente scontata, che ha coinvolto molte città e diverse categorie. Soprattutto studenti e insegnanti, pubblico impiego e comparto dei trasporti pubblici (in particolare dei treni).

Segnali che qualcosa si stava muovendo si erano avuti già nelle settimane precedenti a questo primo appuntamento di sciopero. Una petizione promossa su internet il 18 febbraio da Caroline De Haas (ex militante del partito socialista) aveva raggiunto in poche settimane più di un milione di firme, chiedendo il ritiro della proposta di legge. Slogan della protesta è diventato in brevissimo tempo l’hashtag #Onvautmieuxqueca (valiamo più di questo) lanciato da un gruppo di giovani e affermati youtuber, che ha utilizzato i propri canali sul social network per una vera e propria inchiesta 2.0 attorno al mondo della precarietà in Francia.

Nei giorni precedenti allo sciopero sono state messe a disposizione competenze comunicative e di video-editing per confezionare una serie di filmati in cui sono state raccolte esperienze di lavoro al limite della follia, testimonianze di maltrattamenti e casi di sfruttamento. La campagna, divenuta in poco tempo virale, ha avuto la capacità di mostrare che il lavoro ha ormai caratteri comuni in tutta Europa ed è spesso diverso da come viene raccontato anche qui, nel paradiso delle 35 ore e dello stato sociale, pur con le differenze che costringono molti sud-europei a trasferirsi in Francia.

Un primo risultato la mobilitazione lo ha ottenuto proprio con il moltiplicarsi di queste iniziative che, insieme alla convocazione della manifestazione, hanno fatto slittare di due settimane la presentazione della legge al Consiglio dei Ministri, ora prevista per il 24 marzo.

Per entrare nel merito, tra i punti più contestati di questa riforma c’è il fatto che gli accordi di categoria non potranno più impedire alle aziende di adottare le loro regole in materia di orari supplementari. Se in Francia l’istituzione delle 35 ore settimanali ha fatto il pari fino ad ora con alcune regole abbastanza stringenti in tema di straordinari (prevedendo una remunerazione più alta del 25% per le prime otto e il 50% dalla nona in poi), la legge El Khomri prevede la possibilità di aggirare con varie astuzie i contratti di categoria e di ridurre fino al 10% il surplus per gli straordinari. Questo permette di fatto un’estensione dell’orario di lavoro a basso costo per le aziende fino ad un massimo di 48 ore per settimana derogabili, in casi eccezionali e previa autorizzazione del ministero del lavoro, fino a 60. La legge prevede inoltre maggiore libertà di licenziamento: l’azienda potrà ridurre l’organico per motivi economici nettamente più estesi rispetto al passato, tra i quali addirittura la “riorganizzazione dell’impresa per la salvaguardia della sua competitività”. Nei casi di licenziamento illegittimo, infine, per motivi extra-economici, il sistema cambia e il lavoratore ha diritto ad un indennità non più fissata dal pronunciamento di un giudice, ma stabilita in termini di legge in base all’anzianità e limitata da un tetto massimo.

Una vera rivoluzione del lavoro, annunciata già a gennaio nel rapporto della commissione diretta dall’ex ministro della giustizia Badinter (1) che aveva consegnato al primo ministro francese Manuel Valls un rapporto contenente 61 principi essenziali non negoziabili ai quali si sarebbe dovuto attenere tutto il progetto di riforma. Questi principi riguardano molti aspetti: libertà e diritti del lavoratore, contratto di lavoro, remunerazione, tempi di lavoro, sicurezza nei luoghi di lavoro ecc., ma non fanno alcun accenno al diritto di sciopero.

È inoltre estremamente significativo che siano introdotti proprio da un primo principio che afferma in maniera chiara e netta che “le libertà e i diritti fondamentali della persona sono garantiti in tutte le relazioni di lavoro”, ma che possono sempre “essere apportate delle limitazioni a questi diritti per il buon funzionamento dell’impresa”. Una premessa che dice già tutto, e sembra rispondere alle richieste sempre più pressanti che provengono dalla Commissione Europea e dalla BCE di “ridurre le rigidità relative al mercato del lavoro” (2).

Anche qui in Francia, con l’attacco alla contrattazione collettiva e ai diritti del lavoro – che abbiamo visto moltiplicarsi in Italia almeno dai tempi del governo Monti fino al Jobs Act – ci troviamo di fronte a un progetto di riforma che è in realtà una pura deregulation, a tutto vantaggio dei padroni.

Si tratta di un passaggio decisivo nel contesto della crisi europea, laddove la Francia si colloca all’incrocio tra l’Europa del Nord, in cui la crisi quasi non si è sentita, e quella mediterranea, dove dal 2008 a oggi l’erosione dei diritti sociali, con i tagli al welfare e la crescita esponenziale della disoccupazione hanno fatto pagare la crisi a migranti, precari, lavoratori e giovani. Il welfare francese è sotto attacco, gli abusi sono moltissimi, ma ancora tiene, in un paese dove il salario minimo si aggira intorno ai 10 euro l’ora, dove l’orario settimanale resta di 35 ore, dove esiste una forma non universale di reddito minimo (RSA) e dove lo chomage, a differenza della nostra cassa integrazione, garantisce una fetta molto più consistente della popolazione.

Con questa proposta di legge, il governo presenta il più grande attacco al diritto del lavoro dai tempi del CPE, il contratto di primo impiego (comunque, niente in confronto al nostro jobs act), che venne bloccato a seguito di un’imponente mobilitazione nel 2006. La Francia è un paese ad alto debito pubblico, che deve dimostrare all’Unione Europea di poter “fare le riforme”, come è stato fatto nel sud Europa, ed è quindi uno dei prossimi obiettivi dell’attacco neoliberale ai diritti dei lavoratori. Quello di François Hollande e Manuel Valls è un partito venduto, del tutto in linea con tutte le cosiddette socialdemocrazie europee, che regge solo perché ha saputo capitalizzare la situazione di unità nazionale prodottasi a seguito degli attacchi terroristici nella capitale francese. Oggi il Partito Socialista vuole utilizzare il contesto che si è prodotto per attaccare i diritti dei lavoratori, come il Partito Democratico e tutte le socialdemocrazie europee hanno fatto nel resto d’Europa, assieme alle destre.

Ma i francesi hanno un’attenzione particolare alla difesa degli interessi del lavoro e del welfare. C’è da augurarsi che questa mossa si riveli un clamoroso autogol e riapra la possibilità di una lotta di cui c’è assolutamente bisogno in questo paese. Di questo si è avuto un primo assaggio già il 9 marzo, durante la prima giornata di sciopero che ha visto più di 500mila persone scendere in piazza in tutta la Francia e dare il via a una giornata di lotta che ha visto coinvolti non solo i lavoratori e i sindacati, ma anche gli studenti medi e universitari che hanno bloccato e occupato le scuole e le università. La battaglia contro la riforma del lavoro sembra essere solo all’inizio dato che, in molte città, si sta continuando ad agire in maniera conflittuale per arrivare al blocco di questo disegno di legge, che segnerebbe uno spartiacque importante – e probabilmente un punto di non ritorno – per quanto riguarda i diritti e i salari dei lavoratori.

Il 17 marzo è stata già indetta un’altra manifestazione studentesca, mentre il 31 sarà la volta dei sindacati a scendere in piazza. Intanto nelle facoltà e nelle scuole continua a esserci fermento, e numerose assemblee e iniziative si svolgeranno nelle prossime settimane a Parigi così come in altre città della Francia. Attualmente a Digione, Tours e Nantes numerose facoltà sono occupate, così come i licei, e numerose città sembra che stiano per seguire il loro esempio. Le prossime settimane saranno decisive non solo per la Francia, diventata ultimo banco di prova per l’attuazione delle riforme neoliberali che stanno smantellando sempre più il welfare e i diritti, ma per l’Europa intera: perché se questo progetto di riforma dovesse fallire, nuovi ambiti e orizzonti si possono aprire sul fronte europeo delle lotte, che tutti noi dobbiamo essere capaci e pronti a cogliere.

 

* di Natascia Grbic, Federico Puletti, Antonio Manconi

** Tratto da DINAMOpress

 

(1) Autore, insieme a Antoine Lyon Caen, del libro Le travail et la loi, Fayard, Paris 2015.

(2) «Recommandations de la Commission européenne concernant le programme national de réforme de la France» publiées le 13 mai 2015, COM (2015).