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LEGGE BOSSI-FINI

17 November 2013

La legge (legge 30 luglio 2002, n. 189) modificava le norme già esistenti in materia di immigrazione e asilo, cioè il “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. La Bossi-Fini inoltre cambiava e integrava una modifica precedente, la cosiddetta Turco-Napolitano, legge n.40 del 6 marzo 1998 confluita poi nel Testo Unico.

In particolare, nella legge Bossi-Fini la permanenza legale del migrante sul territorio nazionale è subordinata all’esistenza di un contratto di lavoro”. Questo appare un tratto molto preoccupante nel considerare un essere umano come un valore utilitaristico valido solo ai fini della produzione, del profitto e della rendita. Infatti, persa l’occupazione il migrante ha diritto ad un termine di dodici mesi prima di dover lasciare l’Italia, aggravando ancor di più la considerazione che il mercato fa di quelle che sono persone. Appare chiaro che ricollocarsi sul mercato del lavoro entro sei mesi è oggi, in piena crisi economica, già difficile di per sé, e a maggior ragione ancor più per un migrante in condizione di clandestinità o illegalità.

In generale, rispetto alla precedente legge Turco-Napolitano, che già sanciva la necessità degli ignobili Centri di Permanenza Temporanea (i CPT sono aggi sostituiti con i CIE, ovvero centri di identificazione ed espulsione, nome decisamente più autoritario e altisonante, che rimandano ai già tristemente noti lager del passato), la Bossi-Fini prevede l’obbligo del contratto di soggiorno, ma ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno stessi e i tempi di ricerca di un nuovo lavoro dopo la disoccupazionePer quanto riguardava le espulsioni, invece, come nella legge Turco-Napolitano, fu deciso allora come lo straniero senza permesso di soggiorno doveva essere espulso per via amministrativa: se privo di documenti veniva portato in un centro di permanenza per sessanta giorni, necessario ad identificarlo e poi espellerlo; nel caso non venisse identificato, al clandestino erano concessi tre giorni (e non più 15) per lasciare il territorio italianoE’impossibile non relazionarsi al trattamento oggi riservato ai migranti che giungono nel nostro paese, sottoposti al giogo delle mafie, del lavoro nero, dello sfruttamento, che devono oltretutto fare i conti con una vita legata indissolubilmente ad una certezza lavorativa che oggi in Italia non esiste. Il reato di clandestinità sembra camminare a braccetto con la precarietà di vita per molti migranti.

La Bossi- Fini oltre a voler regolamentare ingressi e permessi di soggiorno, aggiunge anche l’obbligo del rilevamento e della registrazione delle impronte digitali (sia per chi chiede il permesso di soggiorno, sia per chi ne richiede il rinnovo): ovvero sono tutti schedati come criminali a prescindere.

Non esiste discontinuità nei vari testi che hanno regolamentato in questi anni il tema, tanto che rimane una forte ambiguità: da una parte si e’ molto più rigidi e severi, pensando di aver superato il problema (cosa che i dati non assecondano) e dall’altra, con l’introduzione del reato di clandestinità, esiste ed è più reale che mai, il “rischio” di un’immigrazione che non si può sanare in alcun modo, perché non emerge dall’illegalità. Risultati sicuramente migliori si sarebbero potuti ottenere agendo per esempio sul lavoro nero (ed ecco il nostro contributo), che non e’ mai stato aggredito veramente.

[ SCARICA Legge 30 luglio 2002, n. 189 ]